[Pubblichiamo questo contributo del compagno Ermanno Torrico,
Direttore Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione “E.Cappellini”-Urbino.]
Direttore Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione “E.Cappellini”-Urbino.]
La
mostra fake di Fossombrone sui cimeli
fascisti dell’Italia imperiale, roba da rigattieri per nostalgici del
ventennio, nel suo piccolo era una delle tante schegge di un revisionismo
dilagante. Un lungo percorso, più che ventennale, intenzionato a demolire il
legame indissolubile tra la Resistenza e la Costituzione dell’Italia
democratica e repubblicana. Un processo alimentato dapprima in forma anodina,
quasi sommessa, da gran parte della stampa italiana e poi esploso con la
pubblicazione de Il Sangue dei vinti
di Giampoalo Pansa (2003) fino al recente con Il mio viaggio tra i vinti. Neri, bianchi e rossi (2017). In mezzo
altri titoli significativi: La grande
bugia. La sinistra e il sangue dei vinti, I gendarmi della memoria. Chi imprigiona la verità sulla guerra civile,
Bella ciao. Controstoria della Resistenza,
I vinti non dimenticano. I crimini ignorati della nostra guerra
civile, Il revisionista, La guerra sporca dei partigiani e dei
fascisti. Il successo fra il grande pubblico, dovuto all’abilità
comunicativa dell’autore, ha trasformato i temi del revisionismo
antiresistenziale in luoghi comuni diventando per Pansa un’ossessione. Un modo
di raccontare la Resistenza come una macelleria responsabile del “sangue dei
vinti” e l’adozione di un discutibile trattamento e utilizzazione delle fonti
in gran parte orali o attinte dalla memorialistica repubblichina del dopoguerra
affondata nel risentimento e nelle rimozioni, fino alla vulgata sulla RSI di
Giorgio Pisanò, Storia della guerra
civile in Italia.1943-45 che per la prima volta contrapponeva alla “guerra
di liberazione” la “guerra civile” e toglieva dal “limbo storiografico” la RSI
per la prima volta considerata come autonomo oggetto di studio e di ricerca.
E
tuttavia il revisionismo antiresistenziale non si ferma mai malgrado l’evidente
sdoganamento. E’ fresca di giornata (Corriere della Sera di domenica 17), la
notizia che in occasione del 2 novembre, ricorrenza dei defunti, l’assessore
alla sicurezza del Comune di Milano, Carmela Rozza (nomen omen?), sarebbe
intenzionato a deporre il 2 novembre, nel cimitero milanese di Musocco, due
corone: una dedicata ai caduti della Resistenza e l’altra a quelli della RSI. Se
avvenisse sarebbe molto grave perché il revisionismo
otterrebbe, di fatto, un riconoscimento
di grande significato simbolico dopo una lunga marcia condotta con ogni mezzo speculando
sul “sangue dei vinti”. Otterrebbe, finalmente, la parificazione, in nome di
una supposta “guerra civile”, tra fascisti e partigiani, tra coloro che si batterono per riscattare
l’onore del Paese e dettare i fondamenti
della Carta costituzionale, e i fascisti repubblichini che collaborarono
con i nazisti invasori nei
rastrellamenti e nelle stragi dei civili.
Il
revisionismo antiresistenziale fa appello alla emotività generalizzando
attraverso la stampa e i social singoli episodi come quello controverso della
tredicenne Giuseppina Ghersi, uccisa barbaramente da alcuni partigiani, mai
individuati, tanto che il processo intentato dalla sua famiglia nel 1949 si
concluderà con un nulla di fatto. Le testimonianze sono discordanti: i
partigiani affermano che fosse una spia
dei repubblichini a cui passò informazioni che determinarono l’arresto e
la morte di numerosi patrioti, i familiari, invece, sostengono che “Pinuccia”
si limitava a frequentare e intrattenere
la soldataglia repubblichina che si riforniva nel negozio di generi
alimentari da loro gestito. Nel Savonese furono 500 i partigiani caduti in
combattimento e 250 i civili uccisi per
rappresaglia dai tedeschi e dai repubblichini. Non erano tempi normali e
qualche eccesso era inevitabile, sebbene condannato e punito dai comandi
partigiani .
Ora
succede che il sindaco di Noli, un
piccolo Comune nei pressi di Savona,
intende dedicare alla Ghersi una
lapide da collocare, guarda caso, in una piazza intitolata ai fratelli Rosselli. Sul caso Ghersi si è imbastita una vera e propria
campagna nazionale di denigrazione sistematica della Resistenza cui fa da
corollario l’intenzione di Forza Nuova di organizzare il 28 ottobre, nel 95°
anniversario della marcia su Roma del 1922, una manifestazione contro lo ius soli e gli stupri degli immigrati
che “hanno preso d’assalto la nostra patria”. Non bastasse succede anche che
incontra difficoltà in Parlamento l’approvazione
della legge Fiano che introduce nel C.P. un nuovo articolo per armonizzare la
legge Scelba del 1952 e la legge Mancino
del 1993 contro l’apologia del fascismo, anche attraverso la vendita di cimeli,
e la propaganda fondata sulla superiorità o l’odio razziale. L’intento è di
sanzionare condotte penalmente rilevanti con una normativa più precisa e
cogente che colpisca più concretamente il razzismo, la xenofobia, l’odio
religioso e l’antisemitismo. Tutte manifestazioni che sono la punta dell’iceberg
di un diffuso degrado culturale che in Europa ha messo radici anche in società
che vantano solide basi democratiche. Esse cavalcano il malcontento sociale, la
rabbia, la paura e l’insicurezza di questi tempi.
Va
detto che la storia si nutre di documenti e ricerca sempre la verità. Ma la
storia emette dei giudizi e quello sul fascismo e le tragedie morali e
materiali che ha provocato non possono essere messi in discussione e la
parificazione tra i resistenti e i repubblichini è semplicemente aberrante.
Quanto
alla “guerra civile” la RSI non nasce per iniziativa autonoma del fascismo
mussoliniano, ma per imposizione di Hitler al punto che Radio Monaco ne diede
notizia prima ancora che essa fosse effettivamente costituita, né l’arresto di
Mussolini all’indomani del 25 luglio del 1943 provocò alcuna manifestazione di
protesta nella popolazione che voleva solo la fine della guerra, dei
bombardamenti e del “pane nero” riversando la sua rabbia nella distruzione dei
simboli del regime ritenuto responsabile di un dramma collettivo. Lo stesso
avvenne dopo l’8 settembre che non è stato la “morte della patria”, ma l’inizio
della sua rifondazione su basi nuove e democratiche contro le ambiguità
badogliane e il vile comportamento della monarchia.
É
solo in contrapposizione alla Resistenza
che i tedeschi impongono a Mussolini di fondare la Repubblica di Salò, né
voluta, né richiesta dagli apparati, tantomeno dall’esercito, rimasto fedele
alla monarchia, e da gran parte della popolazione dei territori che
ricadevano nella giurisdizione
repubblichina nel contesto drammatico di un’ Italia divisa da eserciti
occupanti contrapposti: gli Alleati nel centro-sud e i tedeschi nel rimanenti
territori con l’obiettivo di rallentare il più possibile l’avanzata alleata
verso nord e allestire e lasciarsi aperta una via di fuga.
Quale
parificazione si attendono i revisionisti? Il loro intento è chiaro e scoperto:
essere considerati non più tra gli autori di crimini, ma leali combattenti
anche se collaboratori dei nazisti nei
massacri dei civili e nei rastrellamenti contro i partigiani. Se tutti i morti sono uguali ne consegue che
tutti sono stati combattenti onorevoli
come se il morire schierati al fianco delle SS avesse lo stesso valore che
l’essere morti combattendo per un’Italia libera e la sconfitta del nazismo. E
dunque l’indistinto rispetto dovuto a tutti i morti non può trasformarsi nel rispetto per le ragioni
di coloro, i repubblichini, che condividevano l’ideologia nazista. Aderire alla
RSI da parte dei cosiddetti “ragazzi di Salò”, non è stato un atto di coraggio.
Molti di loro erano spinti a farlo per paura dei bandi di arruolamento e chi
disertava poteva essere fucilato o deportato. La loro adesione fu un atto di
viltà. Avevano tutto: armi, divise, cibo e danaro, caserme attrezzate e la
protezione dei tedeschi. Erano arroganti e feroci. Il coraggio non era il loro,
ma dei giovani che decisero di andare in montagna e di combattere per cacciare
lo straniero. So benissimo che altri repubblichini (si veda ad esempio il romanzo
autobiografico A cercar la bella morte
di Carlo Mazzantini (1986), e prima ancora, nel 1953, ma la prima stesura
risale al 1945, quello più problematico di Giose Rimanelli, Tiro al piccione, la storia di un
giovane che vede la Resistenza dalla
parte sbagliata), fecero una scelta per
convinzione e non perché costretti o per paura. E combattevano da fascisti,
convinti di quello che facevano e
proprio per questo erano, per quanto possibile, ancora più feroci.
Non
può e non potrà mai esserci condivisione e tanto meno
pacificazione/parificazione tra il partigianato e i repubblichini. L’ipocrisia del
revisionismo ha toccato il fondo e sarebbe bene che la stampa quotidiana e i
media in generale, ne prendessero coscienza, abbandonando i luoghi comuni e
smettendola di abusare di una
terminologia ambigua e fuorviante. Altro che “sangue dei vinti”!
Ermanno
Torrico (Istituto per la Storia del
Movimento di Liberazione “E.Cappellini”-Urbino)