Pubblichiamo l'intervento di Ermanno Torrico, Presidente dell'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione "Cappellini", tenutosi il 23 aprile.
LA
V BRIGATA GARIBALDI “PESARO” E IL CONTRIBUTO DEGLI URBINATI
La
storia della V Brigata Garibaldi “Pesaro”, per essere compresa,
va inquadrata nel contesto della storia delle Brigate d’Assalto
Garibaldi, così erano chiamate, almeno inizialmente, nella
Resistenza regionale e nazionale.
Il
nucleo più importante delle fonti è costituito dal fondo Brigate
Garibaldi riversato presso l’Istituto “Gramsci” a Roma, ma
un’altra parte notevole della documentazione è conservata
dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione
in Italia, fondato a Milano da Parri nel 1949. Una corposa selezione
di documenti è stata pubblicata nel 1979 dall’Istituto nazionale
per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia presso l’editore
Feltrinelli in tre volumi curati da Giampiero Carocci, Gaetano
Grassi, Gabriella Nisticò e Claudio Pavone.
Un’altra
parte di documenti si trova presso la rete degli Istituti regionali e
provinciali associati all’Istituto nazionale, compreso il
“Cappellini”, che si sono via via costituiti soprattutto fra la
seconda metà degli anni sessanta e settanta del Novecento. Il
“Cappellini” è stato istituito nel 1967 come Centro Sudi della
Resistenza e fino al 1974 ha funzionato, di fatto, come Istituto
regionale quando tutto è stato trasferito ad Ancona assieme al suo
ricco archivio.
Qualcosa
abbiamo trattenuto in originale o in copia tra cui le Relazioni sulla
V Brigata Garibaldi “Pesaro” e alcuni fogli clandestini. E’
ovvio che la consistenza della documentazione sia diversa da
provincia a provincia in rapporto alla maggiore o minore presenza del
movimento partigiano. Importante per la storia della V Brigata
Garibaldi “Pesaro” è il materiale del Fondo Mari presso l’ISCO,
l’Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro-Urbino
e i contributi storiografici di Giuseppe Mari (Guerriglia
sull’Appennino,
Argalìa 1965 e di Ruggero Giacomini, Urbino
1943-44 (cronache e documenti), Argalìa
1970 e Ribelli
e Partigiani,
Affinità Elettive 2008, Nuova edizione.
Costituzione
delle Brigate Garibaldi
Formalmente
le Brigate Garibaldi si sono costituite il 20 settembre 1943 a Milano
come formazioni militari organizzate per iniziativa del PCI, così
come quelle autonome badogliane, le “Fiamme Verdi”, a prevalenza
cattolica, le “Matteotti” organizzate dai socialisti e le brigate
di “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione. Il nome
prescelto, quello di Garibaldi evocava sia il Risorgimento sia il
Battaglione delle Brigate internazionali che nel 1936 aveva
partecipato alla difesa della Repubblica spagnola contro i
nazionalisti di Franco.
Luigi
Longo era il comandante generale e Pietro Secchia il commissario
politico. Si pubblicava anche un periodico, “Il Combattente”. Pur
essendo in prevalenza formate da comunisti accoglievano anche
elementi di diverso orientamento politico. Per altro, nelle Marche,
grazie alla direzione nazionale e unitaria del CLN che coinvolgeva
tutto il partigianato, le bande autonome e di formazione politica
sono poche e assenti nel Pesarese, ad eccezione del Distaccamento
autonomo d’assalto “Montefeltro”, la cui base era a Macerata
Feltria, composto di poche decine di uomini che stabilì da subito un
contatto con la V Brigata e il CLN provinciale.
Nella
V Brigata Garibaldi “Pesaro” risulta un unico caso di contrasto
tra un ufficiale badogliano e il suo distaccamento, ma personale,
quello del Comandante urbinate del “Picelli” Orfeo Porfiri, che
possiamo definire un badogliano. Porfiri era un ufficiale di
complemento, che si era distinto per la brillante operazione di
Piandimeleto, dove la Todt organizzava i lavori della linea Gotica,
che fruttò un ingente bottino di armi e materiale (scarpe, coperte e
tende) e la distribuzione del grano alla popolazione. Ma si trattò
di un fatto di incomprensione tra alcuni partigiani del Distaccamento
“Picelli” e il Porfiri che, secondo il Comandante della V
Brigata, Ottavio Ricci (Nicola), “non
riuscì a spogliarsi della concezione militarista della disciplina e
finì ben presto col trovarsi a disagio tra i suoi nonostante il
prestigio di capacità che godeva”.
Il Porfiri preferì allontanarsi seguito da alcuni del “Picelli”
che in seguito, secondo Ricci, ritornarono al Distaccamento.
Difficoltà
nei rapporti tra militari di carriera, “badogliani”, e bande
partigiane si registrarono, invece nel maceratese sia per
l’impostazione strategica che per i militari era prettamente
difensiva e poco mobile, sia per l’imposizione anche formale del
rispetto delle gerarchie che si volevano imporre a giovani che non
avevano ricevuto un addestramento militare e in cui prevaleva
l’idealismo e lo spontaneismo. Tutto questo entrava in conflitto
con la mobilità indispensabile alle bande che applicavano la tattica
del “mordi e fuggi” propria della guerriglia e l’esigenza di
sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi e dei repubblichini, mentre
le gerarchie e il comando erano definite dalla lotta armata.
La
V Brigata Garibaldi “Pesaro”: un punto d’arrivo contrastato e
difficile
Qualcuno
a volte mi ha chiesto: “ma perché V Brigata?”. Dunque il primo
nucleo della Brigata, come vedremo, si costituì nella prima decade
di gennaio del 1944 e fu una delle prime a formarsi, appunto la
quinta, preceduta, nell’ordine dalla “Friuli”, dalla “Biella”,
dalla “Piacenza”, dalla “Cuneo”. Occorre precisare, ma si
tratta di un dettaglio, che la denominazione di “Garibaldi” come
quelle di tutte le altre formazioni, formalmente decadde dopo
l’unificazione di tutte le forze partigiane in regolari unità
militari, “parte integrante delle forze armate italiane con tutti
gli attributi e i diritti di unità belligeranti”, decisa il 29
marzo 1945 dal CLNAI, e resa esecutiva dal CVL, l’organismo di
coordinamento militare, ma in realtà se ne conservò il nome anche
nella intestazione di documenti successivi. Il problema del cambio di
denominazione non si pose, comunque per le Marche che ai primi di
settembre del 1944 erano state completamente liberate.
Importanti
per la ricostruzione delle vicende delle Brigata Garibaldi sono le
relazioni sulla loro attività redatte dai comandanti e dai rapporti
inviati al Comando generale dagli ispettori. Per le Marche, e quindi
anche per la V Brigata, i collegamenti erano tenuti da Egisto
Cappellini (Marco) e poi da Ilio Barontini (Dario), Antonio Roasio
(Pietro, Paolo) e da Alessandro Vaia (Alberti).
Se
la fine ufficiale dell’attività della V Brigata Garibaldi “Pesaro”
è nota, ebbe luogo il 15 luglio 1944 quando passata la linea del
fronte a Pietralunga la Brigata venne disarmata dagli inglesi,
altrettanto non può dirsi del momento preciso della sua costituzione
che fu abbastanza travagliata ed avvenne in ritardo rispetto alla
altre bande partigiane della regione sia per l’assenza di un
comando, almeno inizialmente affidato a militari di carriera, come
avvenne ad Ascoli e Macerata, sia per le indecisioni provocate dai
tentativi di pacificazione da parte fascista e dall’attendismo
dell’antifascismo moderato.
Anche
a Urbino, come a Pesaro, Fano ed Ancona, la dissoluzione
dell’apparato statale dopo l’8 settembre e il disorientamento dei
partiti antifascisti, ricostituiti in forma semiclandestina dopo la
caduta del fascismo il 25 luglio 1943, porta alla costituzione, il 16
settembre, di un Comitato esecutivo dei cittadini urbinati presieduto
dal podestà Giorgio Paci.
Il
Comitato, concepito come un organismo unitario e di conciliazione fra
tutte le forze politiche, compresi i fascisti, restò in piedi anche
dopo la costituzione della RSI il 23 settembre e l’apparizione in
città di reparti di SS e l’istituzione di un presidio militare
tedesco il 16 dicembre. Formalmente il Comitato continuò a riunirsi
fino il 5 gennaio 1944.
Tuttavia
il caso di Urbino è diverso da quello di Pesaro perché il patto non
si realizza fra le forze politiche ma tra i cittadini. Secondo
Giacomini questo spiega la sua durata fin oltre gli inizi della
resistenza armata. Ma occorre anche sottolineare che l’iniziativa
era stata presa dall’autorità ufficiale e il Comitato svolgeva una
funzione di mediazione tra il podestà e la popolazione.
La
costituzione della RSI e l’occupazione tedesca della città
spinsero le forze antifasciste a venire allo scoperto operando al di
fuori del controllo del Comitato. Un gruppo guidato da Erivo Ferri
attaccò il corpo di guardia addetto alla sorveglianza del deposito
di armi nella galleria ferroviaria all’imbocco di Schieti
impadronendosi di armi comprese due mitragliatrici. Ma l’episodio
più clamoroso fu la sottrazione di armi dalla caserma dei
carabinieri, avvenuta con uno stratagemma in pieno giorno da parte di
un eterogeneo gruppo di giovani antifascisti.
Dalla
G.N. alla V Brigata
Il
4 ottobre 1943 a Pesaro il CLN provinciale decise di organizzare la
Guardia Nazionale. In molti centri della provincia sorsero squadre
della GN armate con le poche armi disponibili prelevate dai depositi
delle caserme dopo l’8 settembre. Ma la difficoltà di sviluppare
un’attività militare efficace impose la trasformazione della GN in
Gruppi di Azione Patriottica (GAP) la cui azione, limitata alle aree
urbane, riguardava soprattutto, almeno agli inizi, la propaganda
clandestina e la raccolta di armi. L’obiettivo di costituire una
prima banda si concretizzerà solo i primi di gennaio del 1944.
In
mezzo, tra ottobre e dicembre, si colloca l’episodio di Ca’
Mazzasette, troppo noto per essere qui ricordato, e la costituzione
l’11 novembre di una prima base logistica, nella zona di Cantiano,
ai piedi del monte Catria, ad opera di Erivo Ferri, e Ottavio Ricci,
dopo una ricognizione operata da Mariano Bertini inviato sul posto da
Egisto Cappellini per conto del PCI.
Ma
se nel CLN provinciale c’era accordo sulla necessità della lotta
armata si manifestavano tuttavia divergenze e resistenze sulla
metodologia da adottare anche nella base del PCI che pure era il più
determinato nel sostenerla. Alcuni sostenevano che la lotta armata
dovesse concentrarsi esclusivamente nei centri urbani perché
l’inverno e le difficoltà di collegarsi con i contadini e la loro
realtà, fatta di fatica e miseria, una realtà quasi separata per
l’isolamento dal mondo circostante, rendevano molto difficile
l’organizzazione di formazioni partigiane in montagna.
In
seguito, a questo proposito, Evio Tomasucci, partigiano combattente
amministratore e dirigente e parlamentare del PCI, nel mentre
sottolineava, giustamente, la funzione della Brigata GAP di Pesaro
nel sostenere la formazione della V Brigata Garibaldi, soprattutto
nel rifornimento di armi e di vettovagliamento, riconosceva che i
pesaresi non avevano dato un grande contributo in uomini alla
formazione della V Brigata. E così lo spiegava: “ Si
decise di rimanere nell’ambito di Pesaro, e ciò soprattutto perché
(…) si era riusciti a stabilire rapporti particolarmente favorevoli
con la popolazione, con i contadini, con i giovani, con gli studenti,
e quindi ci sembrava di essere sradicati da questo terreno portando
altrove il centro della lotta”.
A
determinare la svolta influirono molto le motivazioni di Egisto
Cappellini sulle conseguenze della chiamata alle armi della RSI. Si
chiedeva e chiedeva Cappellini al CLN: “In questa situazione quale
contropartita le forze dell’antifascismo potevano mai dare a quei
giovani ? Quali i termini perché fosse realizzabile la parola
d’ordine: ‘Non rispondere alla chiamata alle armi. Disertare le
caserme?’ ”. L’unica soluzione era quindi quella di costituire
formazioni partigiane lontane dalle città e dai paesi. Pertanto –
concludeva – era indispensabile che queste organizzazioni militari
si costituissero con una struttura solida e un orientamento politico
ben preciso.
Dalla
proposta di Cappellini , sebbene contrastata, prese l’avvio, il 10
gennaio 1944, nella zona di Cantiano, la costituzione del primo
Distaccamento partigiano per iniziativa di Erivo Ferri (Francesco)
Ottavio Ricci (Nicola) e Pierino Raffaelli (Ugo) e l’aiuto
fondamentale dei cantianesi Nazzareno Lucchetta, Giovanni Garofani,
il famoso (Dindiboia), Francesco Lupatelli e Ubaldo Vispi ai quali
fin dai primi di dicembre si erano uniti i fanesi Giannetto Dini,
Gianni Pierpaoli, Vincenzo Lombardozzi, e gli slavi, evasi da
Renicci, Franjo Simac, Drago Gorenc e Vinco Kosuk. Il Distaccamento
che contava circa quaranta partigiani fra cui diversi slavi, fu
denominato “Picelli”, in ricordo di Mario Picelli protagonista a
Parma nel 1922 nell’organizzare con successo la reazione della
città contro le squadracce di Italo Balbo e che trovò la morte nel
1937 per difendere la Repubblica spagnola. Comandante fu designato
Ferri. Poco dopo, nella zona di Frontone, si costituì un secondo
Distaccamento il “Gramsci”, al comando di Pierino Raffaelli.
Nella
prima metà di marzo furono costituiti altri quattro Distaccamenti:
“Fastiggi”, “Pisacane”, “Stalingrado”, “Gasparini”.
Nei mesi successivi i Distaccamenti diventarono 14. Tra la fine di
gennaio e i primi di febbraio, si era ben presto, raggiunto il numero
di 300 uomini necessari per la costituzione della Brigata che, come
previsto dalle disposizioni del Comando centrale delle Brigate
Garibaldi, dovevano essere inquadrati in Battaglioni di almeno 150
uomini, formati da tre Distaccamenti composti da 30 a 50 uomini. I
Distaccamenti potevano essere suddivisi in squadre di 10 uomini, a
loro volta formati da due nuclei di 5. Aveva dunque visto giusto
Cappellini quando il 10 febbraio aveva scritto nel rapporto inviato
al Comando generale delle Brigate Garibaldi e al periodico “Il
Combattente”, che “specialmente
nelle province di Macerata, Ancona e Pesaro, i numerosi distaccamenti
Garibaldi e GAP sono da qualche settimana attivissimi”.
E concludeva: “La
macchina ormai è lanciata, nessuno potrà più fermarla”.
In effetti la lotta armata era diretta da un comando centralizzato,
la Brigata, e dal mese di aprile avrà il supporto della Divisione
Garibaldi “Marche” il cui comando fu fissato il 13 aprile in un
incontro a Pesaro, in località Torraccia.
L’organico
della V Brigata
Nella
primavera del 1944 alla vigilia di estesi rastrellamenti tedeschi e
repubblichini, l’organico della V Brigata, risultava costituito da
5 Battaglioni. Il quarto Battaglione, composto da italiani e da 40
montenegrini, in base ad accordi con la resistenza jugoslava,
incorporò altrettanti sloveni, serbi, croati, oltre a 29 russi ed
altri 6 partigiani slavi, ma di nazionalità non accertata, che
militavano negli altri Distaccamenti mentre gli italiani passarono al
Distaccamento “Dini”.Questo Battaglione trasferì la
denominazione di “Stalingrado” dall’originario Distaccamento,
strutturandosi in 3 Distaccamenti: “Stalingrado” 1, 2 e 3. I
componenti erano combattenti spesso già addestrati, molto coraggiosi
e decisi, crearono a volte qualche problema nel rispetto della
disciplina e nel rapporto con i contadini, ma si trattò di pochi
casi isolati e nell’insieme il loro apporto alla lotta armata fu
molto importante come ricorda Mari nel suo saggio del 1964 La
Resistenza in Provincia di Pesaro e la partecipazione degli
jugoslavi.
Il IV Battaglione “Stalingrado” nel ruolino dei partigiani
combattenti della V Brigata Garibaldi “Pesaro”, risulta composto
di 173 unità. Ad esso era stato aggregato anche un ebreo tedesco
originario di Francoforte che si chiamava Max Federman a cui fu
affidata l’esecuzione della spia ungherese Maria Keller, nota come
Marion, infiltrata dal prefetto di Perugia Rocchi nelle bande
partigiane fra Umbria e Marche.
A
completare l’organico nel mese di giugno furono istituiti due
reparti di genieri per un totale di 40 uomini con il compito di
“controsabotaggio” delle vie di comunicazione per facilitare
l’avanzata delle truppe alleate. Fu istituito anche un reparto di
polizia di 20 uomini per la sorveglianza dei prigionieri.
La
componente femminile, come risulta dal ruolino dei partigiani
combattenti, era costituita da 53 donne. Ben 37 di loro erano di
Cantiano, 3 di Cagli, 2 di Mercatello e Piobbico e una ciascuna di
Pesaro, Fossombrone, Apecchio, Piandimeleto. Inoltre 2, Anna e Lea
Orbach, erano originarie di Trieste mentre le sorelle Terradura,
Walchiria e Lionella, provenivano da Gubbio. Di Urbino risulta
Giorgina Maselli. La Resistenza al femminile è un argomento
difficile, sottovalutato, quando non sottaciuto, per troppo tempo. Il
riferimento alle donne “resistenti” anche dal punto di vista
semantico è riduttivo. Si usano le accezioni di “collaboranti” o
al massimo di “partecipanti”. Ma partecipare significa “prendere
parte” e non ancora “essere parte”. Il tema è interessante ma
non possiamo affrontarlo questa sera. Le donne della V Brigata
costituisco comunque quasi la metà delle 120 partigiane arruolate
nell’insieme delle formazioni partigiane, soprattutto nelle SAP,
nei Gruppi di difesa della donna e nel Fronte della Gioventù.
Ogni
Battaglione e Distaccamento aveva un comandante e un commissario
politico. Tutti i comandanti e i commissari politici erano eletti dai
componenti dei Distaccamenti mentre l’elezione dei comandanti e dei
commissari politici di Battaglione competeva ai comandanti e ai
commissari politici eletti dai Distaccamenti. Nella sua relazione il
Comandante della V Brigata Ottavio Ricci osserva che non fu facile
trovare i quadri perché erano richieste autorevolezza e duttilità
nel rapporto con gli uomini.
Oltre
al citato caso di Orfeo Porfiri , ci fu un solo episodio di
insubordinazione che riguardò il comandante “Roberto”, non sono
riuscito ad appurare il cognome, che in un momento di debolezza
durante i feroci rastrellamenti del maggio 1944, temendo una
rappresaglia contro i suoi familiari, si costituì alle autorità
della RSI. Poco dopo ritornò e benché sinceramente pentito fu
scacciato.
E’
certo a “Roberto”, che sono rivolte le critiche durissime
espresse nel suo rapporto dall’ispettore Barontini del Comando
generale delle Brigate Garibaldi: “…Un
Distaccamento
[si tratta del “Pisacane” del primo Battaglione]
ad iniziativa del comandante (un compagno) finiva con l’arrendersi
, il comandante in questione ha finito con l’ingabbiarsi nella
polizia fascista facendo sapere al comando nostro che restava al
servizio dei partigiani. Naturalmente ho dato disposizioni perché la
faccenda sia liquidata come di regola per i traditori”.
Come si è detto il comandante della Brigata, Ottavio Ricci, prese
una decisione forse dettata dal buon senso, ma la durezza di
Barontini era motivata dalla preoccupazione per i rastrellamenti e le
continue segnalazioni di spie e delatori che si avvicinavano alle
postazioni partigiane per riferirne ai comandi tedeschi e
repubblichini la posizione e la consistenza.
Francesco
Lupatelli nel suo Cronache
partigiane
(Cantiano 2000) descrive molto bene l’ansia prodotta dai
rastrellamenti: “Chi
dice di non aver avuto paura in quei lunghi giorni di rastrellamento,
non dice la verità. Non si ha paura in combattimento, né quando si
compiono le azioni di sabotaggio, ma durante il rastrellamento non
sai quanti sono. Né da quale parte vengono. Hai paura di notte di
essere sorpreso e ti rimane poca difesa; hai paura di giorno, perché
alla luce del sole se sono in molti, non hai scampo”.
Gli
Urbinati della V Brigata
Da
Urbino partirono per la montagna molti giovani. Dopo il 25 luglio
1943 l’antifascismo si riorganizzava nell’ambiente
dell’Università per iniziativa di alcuni docenti e anche i partiti
riallacciavano i loro contatti con i rispettivi referenti. Un fronte
pluralista che saldava l’esperienza dei vecchi militanti, in gran
parte comunisti, che non si erano piegati al fascismo, con la
scoperta da parte di molti giovani della follia della dittatura
fascista che aveva trascinato il Paese nel conflitto mondiale.
L’apporto
degli urbinati alla lotta armata condotta dalla V Brigata non deve
sorprendere. Esso non fu casuale perché affondava le radici nelle
tradizioni democratico-repubblicane che risalivano alla fine
dell’Ottocento, rinvigorite poi dall’iniziativa di socialisti e
comunisti diretta a dare un obiettivo politico alle rivendicazioni
degli operai e dei contadini.
Mari
sottolinea che, oltre a lui, erano urbinati i quadri del secondo e
terzo Battaglione della V Brigata. Furono comandanti Emo Castellucci,
Vittorio Filippini, Erivo Ferri, Mario Peroni, Elmot Bellucci,
Corrado Budassi. Molti anche i commissari politici: Enzio Fortini,
Mario Bernardi , Egiziano Raffaelli, Nello Gualazzi, Antonio
Bisciari, Giuseppe Tomassini. Funzioni di comando ebbero inoltre
Canzio Bartolucci, Ivo Bonalana Ferriero Corbucci, Tonino Ferri,
Lazzaro Fontanoni, Amos Alberici, Franco Cangiotti, Eliseo Scopa ed
altri ancora. In totale furono 65 gli urbinati che svolsero funzioni
di responsabilità politica e di comando nella V Brigata e nei GAP
e 96 quelli proposti dalla Commissione ministeriale per il
riconoscimento dei gradi amministrativi da sergente a
tenente-colonello.
Tra
di loro i giovanissimi Fernando Luminati, classe 1928, Romano Arceci
e Luigi Franci classe 1929 ed Enzo Merli, il famoso “Padellino,
classe 1930. Dei 15 decorati a vario titolo al V.M. della V Brigata,
8 erano urbinati: Erivo Ferri, Romano Arceci, Enzo Merli, Giuseppe
Mari, Egisto Cappellini, Fernando Luminati, Ferdinando Salvalai,
Francesco Tiboni.
Il
ricordo corre anche ad Adler Annibali ed Angelo Arcangeli,
rispettivamente comandante e commissario politico della Brigata GAP
Schieti, forte di 413 uomini organizzati in due Battaglioni, otto
Distaccamenti e 16 Squadre, che di fatto era parte integrante della V
Brigata con la quale agiva a stretto contatto. Era nel medio Foglia,
non a caso, che si concentravano i giovani che poi venivano
accompagnati ai Distaccamenti del Catria e del Nerone.
Sui
Gap di Schieti occorre ricordare i numerosi attacchi e sabotaggi
portati contro la Linea Gotica tra Sassocorvaro e Badia Tedalda, di
cui nella Relazione di Ottavio Ricci si parla poco. E sarà proprio
Adler Annibali a procurarsi una planimetria degli apprestamenti
difensivi tedeschi sul medio Foglia, tra Casino del Sole e Montecalvo
in Foglia, planimetria che consegnerà al comando inglese.
Accompagnerà poi una colonna corazzata fino al cimitero di Pallino
da cui era possibile vedere gran parte dei tratti fortificati e parte
di quelli minati. A quel punto un gruppo di partigiani, da lui
indicati, guiderà gli inglesi ad attraversare la zona minata nei due
passi liberi indicati nella planimetria in direzione del monte della
Croce.
Dell’importanza
del contributo degli urbinati alla lotta armata nella V Brigata e
nella Brigata Gap di Schieti, parlano le cifre e le percentuali da
cui si ricava un quadro molto preciso. Su 1513 partigiani combattenti
(927 della V Brigata, più 413 della Brigata Gap di Schieti, più 173
del IV Battaglione Stalingrado) gli urbinati sono 286 pari al 19%.
Di loro 96 Numerosi anche i partigiani di Cantiano: ben 197 pari al
13%. C’erano poi folti gruppi che provenivano fa Frontone (50),
Cagli (45), Apecchio (43), Piobbico (23). Pochi invece i pesaresi
(27) e i fanesi (6) per i motivi sopraddetti, impegnati in gran parte
nella brigata Gap Pesaro e nella brigata Garibaldi “Bruno Lugli”,
forte di 5 distaccamenti, costituita a fine giugno 1944 per riunire
diversi nuclei di partigiani sparsi in una vasta zona senza
collegamenti tra di loro nella valle del basso Metauro e la
prospiciente fascia collinare. 21 partigiani erano di Pietralunga,
sul versante umbro, che avevano preferito passare alla V Brigata per
dissenso nei confronti della brigata umbra San Faustino dove
prevaleva un orientamento considerato attendista, soprattutto dalla
banda di Samuele Panichi che passò compatta alla V Brigata
costituendone il V Battaglione denominato Liebknecht in ricordo del
figlio caduto in combattimento.
Le
azioni della V Brigata
Si
è detto che il primo Distaccamento della V Brigata ad essere
costituito è il “Picelli”, ma la prima azione armata fu
realizzata dal “Gramsci” che il 19 gennaio realizzò un’efficace
azione di sabotaggio a Bellisio Solfare con la messa fuori uso dei
trasformatori della miniera di zolfo di Ca’ Bernardi che bloccò
per un po’ la produzione bellica tedesca.
La
zona d’azione della V Brigata si svolse quasi costantemente nel
vasto territorio montano del Monte Catria e del Monte Nerone fino a
compiere azioni nelle Serre di Burano e nel territorio compreso tra
Pergola, Bellisio, Costacciaro, Scheggia, Pietralunga, Bocca
Serriola, Apecchio, Piobbico, Acqualagna, Cagli, comprendendo quindi
anche una parte della provincia di Perugia. Pietralunga diventò un
po’ il crocevia dove si incontravano i distaccamenti della V
Brigata e quelli della Brigata San Faustino/Proletaria d’urto con
la quale si stabilirono anche iniziative comuni sia di offesa che di
sganciamento dai rastrellamenti.
L’abilità
di affrontare i rastrellamenti tedeschi e repubblichini fu messa a
dura prova il 24 febbraio, una giornata di freddo e di neve, nella
zona di Palcano. Più di 130 repubblichini giunsero improvvisamente a
Pontedazzo all’alba dispiegandosi verso la zona tenuta dal
“Picelli”. Erano preceduti da 6 ostaggi per catturare i quali
avevano ucciso un giovane del luogo, Antonio Guglielmi, che intendeva
unirsi ai Partigiani. I fascisti furono respinti e inseguiti con
gravi perdite. Abbandonarono gli ostaggi e diedero alla fuga temendo
di essere accerchiati. La zona di Palcano che insisteva sulla
Flaminia era strategica per sabotare le comunicazioni dei tedeschi e
impedire la distruzione di ponti e strade per favorire l’avanzata
alleata. E lo diventerà a maggior ragione quando alla fine di maggio
il secondo corpo d’armata polacco, dopo Monte Cassino, era fermo
intorno a Campobasso e l’obiettivo non era più di raggiungere la
valle dell’Arno per poi procedere lungo l’asse Firenze-Bologna ma
di risalire la costa adriatica. In tal modo le Marche diventarono il
principale teatro di operazioni in Italia (Operation Olive).
Un
altro scontro importante avvenne a Vilano, sempre nel comune di
Cantiano, il 25 marzo 1944. Una vera e propria battaglia consegnata
in numerose testimonianze dei protagonisti. Tutte concordano nel
definire la battaglia uno scontro cruento condotto a distanza
ravvicinata con lancio di bombe a mano. Uno scontro impari sostenuto
soprattutto dai Distaccamenti “Pisacane” e “Fastiggi”, circa
80 uomini contrapposti ad almeno 300 tra fascisti, militi forestali e
un battaglione di tedeschi del reggimento “Lutze” provenienti in
buona parte dalla provincia di Pesaro ma anche dal presidio di
Rimini.
Il
rastrellamento era atteso e quindi i partigiani non furono colti di
sorpresa. Avevano scavato alcune trincee una frontale e le altre due
in posizione tale da proteggere un eventuale sganciamento. La
battaglia si protrasse dall’alba al tramonto fino al ritiro dei
fascisti e dei tedeschi con forte perdite.
Altrettanto
duro fu lo scontro che avvenne il 19 maggio in località Monte dei
Sospiri vicino ad Apecchio quando circa 800 tra fascisti e tedeschi
attaccarono il Battaglione “Stalingrado”. Protetto da nuclei del
Picelli e Gasparini, inflissero consistenti perdite ai nazi-fascisti
e riuscirono a sganciarsi.
Un’altra
azione che va ricordata è quella che avvenne in località Paravento
il 19 e il 20 giugno quando il distaccamento Pisacane fu attaccato da
ingenti forze repubblichine sostenute da truppe scelte tedesche
alpine. Il nemico subì perdite molto gravi mentre i partigiani del
“Pisacane” riuscirono ad operare lo sganciamento grazie al
sacrificio di Mario Sabbatini che guadagnò tempo tenendo impegnati i
tedeschi con la sua mitragliatrice fino ad essere sopraffatto.
Questa
capacità della V Brigata di sottrarsi ai rastrellamenti, dovuta alla
conoscenza del terreno e ad una buona dose di temerarietà, darà il
meglio di sé ancora nel corso dei terribili rastrellamenti di
maggio-giugno che costrinsero diversi distaccamenti a spostarsi con
una lunga e pericolosa marcia a piedi dalle Serre del Burano fino a
raggiungere Sestino e Badia Tedalda nella zona dell’Alpe della Luna
teatro delle imprese di Enzo Merli “Padellino”.
Qui
abbiamo ricordato solo gli eventi ritenuti più importanti ma la
guerriglia della V Brigata colpì incessantemente le caserme della
Guardia Nazionale Repubblicana e dei Carabinieri con l’aiuto dei
Gap sabotando la ritirata dei tedeschi verso la Linea Gotica. Episodi
dolorosi furono la cattura di Dini e Salvalai avvenuta a Ca’ La
Lagia e altre perdite importanti come quella di Lazzaro Fontanoni,
una vicenda opaca riportata di recente alla luce da un lavoro di
ricerca del figlio Antonio. In totale i caduti furono 44 e 21 i
feriti.
La
capacità organizzativa e l’efficacia militare sono presenti nella
tradizione interpretativa rappresentata da Roberto Battaglia e Enzo
Santarelli. Nel suo classico lavoro dedicato alla Storia
della Resistenza Italiana,
Battaglia, nel ricordare lo scontro del Monte dei Sospiri, sottolinea
che non era “dovuto al caso (…) se la Garibaldi Pesaro raggiunge
presto questo alto grado di sviluppo che la pone a fianco delle
maggiori unità del nord” e attribuisce la sua maggior forza
rispetto alle unità dell’Italia centrale, alla presenza di quadri
provenienti dalla classe operaia (15 su 35) anche se sottolinea la
mancata formazione di quadri contadini e il distacco tra partigiani e
gli elementi “badogliani” del vecchi esercito. Aspetti che
trovano conferma nelle ricerche di Enzo Santarelli sugli Aspetti
sociali e politici della guerriglia partigiana nell’Appennino
Umbro-marchigiano.
La Resistenza era stata secondo Santarelli un insieme di spontaneità
e organizzazione nel senso che il processo resistenziale si è
realizzato nel corso dell’azione.
IL
Disarmo della V Brigata
Nel
giugno 1944 il CLN regionale e il Comando della Divisione Garibaldi
“Marche”, disposero la riorganizzazione delle formazioni
partigiane e l’integrazione nelle Brigate anche delle formazioni
autonome del Gruppo Bande Nicolò del Maceratese. Inoltre nel CL
regionale entrò una delegazione di ufficiali e un rappresentante del
Fronte della Gioventù che mobilitava i giovani affinché entrassero
nelle formazioni armate.
Si
trattò di una riorganizzazione come se la lotta fosse durata un
altro anno come al Nord. Ma fu comunque utile per presentare agli
Alleati formazioni ben inquadrate e organizzate che avrebbero potuto
affiancare gli Alleati nelle operazioni del fronte fino alla
liberazione completa del Paese. Il 21 giugno applicando quanto
disposto dal CLNAI, in accordo col governo di Roma, la Divisione
Garibaldi “Marche” assumeva la denominazione di Delegazione di
Comando del CVL.
In
realtà i comandi alleati non consentirono alle Brigate partigiane
di continuare a combattere una volta incontrato il fronte. Tutto
questo provocò dei contrasti nei comandi delle Brigate e anche nella
V Brigata perché non ci fu unità di intenti “per impedire
l’assorbimento frazionato delle formazioni partigiane nel fronte e
il loro disarmo da parte degli Alleati dell’ Ottava Armata, come
già era accaduto alla Brigata “Spartaco” dopo la liberazione di
Macerata. Una situazione che provocò una forte tensione dato che
gli uomini della “Spartaco” avrebbero voluto continuare a
combattere mantenendo le proprie formazioni e i propri comandi. Lo
stesso avvenne nell’Anconetano e nel Fabrianese.
Lo
stesso Cappellini, membro del Comitato insurrezionale marchigiano,
con il responsabile militare Alessandro Vaia era intervenuto presso
il comando dell’Ottava Armata. La risposta fu che i partigiani
dovevano lasciarsi disarmare e consegnare le armi in base agli
accordi presi con il Governo di Roma. La V Brigata doveva
concentrarsi a Pietralunga dove c’era un forte concentramento di
truppe tedesche. Insomma si doveva fare quello che serviva al Comando
Alleato.
A
nulla servì un incontro dello stesso Cappellini con Togliatti il
quale gli spiegò che la priorità era quella di non mettere in
pericolo l’unità antifascista e di non provocare l’isolamento
del PCI. Consigliava a Cappellini di far confluire i partigiani nel
CIL avvertendo che “nulla dobbiamo nascondere ai partigiani, ma
dobbiamo dire loro che nel CIL incontreranno anche forze di vecchia
formazione o provenienza fascista (…) che riserveranno ai nostri
ex partigiani un trattamento assai diverso, ma dobbiamo spiegare loro
– concludeva – perché impartiamo un tale ordine”. Il messaggio
era chiaro: i rapporti di forza erano sfavorevoli e non rimaneva
altro per modificare gli equilibri politici che puntare sulla
presenza partigiana nel CIL e proseguire la lotta per la liberazione
completa del Paese. E saranno più di 2.000 i partigiani delle Marche
che si arruoleranno come volontari nelle divisioni del CIL.
Il
dibattito all’interno della V Brigata fu aspro e contrappose il
comando (Ottavio Ricci), che sosteneva le ragioni di coloro che
erano favorevoli a concentrare la forza d’urto delle formazioni
partigiane sulle rotabili per intralciare la ritirata tedesca, al
comandante del II Battaglione Giuseppe Mari secondo il quale le
formazioni dovevano rimanere lungo i rilievi a nord del fronte
affinché mentre il fronte risaliva, i partigiani avrebbero potuto
facilitare “un’azione di grande valore militare sulla linea
Gotica”. Era vero, rifletteva Mari, che c’era una spinta
spontanea a raggiungere il fronte, ma andava spiegato che precedendo
l’avanzata alleata si sarebbero potute liberare Urbino, Fano e
Pesaro.
Il
punto di vista di Ottavio Ricci non metteva in discussione
l’autonomia della Brigata, e proprio per questo i distaccamenti
erano stati invitati a raggrupparsi in un’area a sud del monte
Nerone, ma nello stesso tempo si sarebbe dovuto fornire agli Alleati
il massimo della cooperazione risalendo con loro il fronte con
compiti di formazione avanzata. Ma in realtà gli Alleati non
consentirono ai partigiani di proseguire la guerra come reparti
autonomi come insistentemente richiesto dal II Battaglione. Mari
aveva presentato al Comando di Brigata un dettagliato piano di
penetrazione verso nord nel tratto Badia Tedalda-Macerata Feltria
dove da mesi erano interrotti i lavori di fortificazione della
Gotica. Il progetto prima fu bocciato dai comandanti dei
Battaglioni e approvato in seguito quando ormai era troppo tardi
perché dai primi di luglio il Comando alleato di Umbertide aveva
ordinato alla V Brigata di raggiungere il fronte.
Il
15 luglio 1944 i partigiani della V Brigata vennero disarmati nel
campo di sfollamento di Umbertide e invitati ad abbandonare il luogo
mentre i partigiani slavi scelsero in massa di continuare a
combattere nell’esercito di liberazione del proprio paese e furono
quindi rimpatriati via mare.
In
un diario in cui appuntò gli eventi dal 7 al 17 luglio, così Mari
commenta la vista dei carichi di armi consegnate agli inglesi: “Ora
le care armi, così buttate sopra un carro di buoi, sembrano quasi
ferracci inutili, ed i partigiani intanto vanno come reietti per le
strade polverose, con le loro scarpe rotte sempre legate con il filo
di ferro e con i loro pidocchi”. E concludeva amaramente: “Qui
sanno ben poco di quello che abbiamo fatto, ci considerano poco più
che vagabondi, volendoci fare un favore ci assomigliano a dei
banditi. Un capitano italiano ha rimproverato un suo subalterno
perché questi aveva fatto dare una gavetta di rancio ad un
partigiano affamato. Così il volto, come ci è apparso per la prima
volta, della Patria liberata”.
Ermanno
Torrico
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