sabato 23 aprile 2016

RELAZIONE INTEGRALE DI ERMANNO TORRICO LETTA NELLA SERATA DEL 22 APRILE.



   

25 Aprile 2016

            Gli anniversari nascondono sempre delle insidie perché è facile cadere nella retorica celebrativa o, all’opposto, in una lettura storiografica specialistica e accademica. Per tenermi lontano da queste insidie mi sono allora imposto di preparare un testo scritto per intrecciare l’esigenza del racconto e della memoria con  una lettura storiografica che ne costituisca il contesto e la bussola obbligati. Lettura storiografica che deve sempre essere aggiornata e questo vale anche per la storiografia della Resistenza che negli ultimi vent’anni ha compiuto passi notevoli in una messa a punto interpretativa che  riconosce,  al di là degli aspetti militari e della dialettica fascismo-antifascismo, la presenza di una pluralità  di soggetti che hanno avuto un ruolo diverso e tuttavia importante: dal contributo dei militari  alla cosiddetta “resistenza civile” delle popolazioni, dal clero alle donne e al dibattito e ai contrasti nei Cln.   
            Prima dunque di descrivere la realtà di Urbino nel terribile periodo 1943-44, occorre prendere atto che nell’Italia di oggi la Guerra di Liberazione continua ad essere non solo un problema storiografico. L’attuale Governo del Paese, infatti, si sta allontanando sempre più dagli ideali della Resistenza e dalla grande eredità che di ha lasciato, vale a dire la Carta costituzionale.  E se guardiamo allo pseudo-dibattito in corso, soprattutto sui media, credo non sia esagerato definirlo come la continuazione della politica con altri mezzi. E’ evidente a tutti, infatti, che la revisione della Costituzione che sarà sottoposta a referendum il prossimo ottobre, intende svuotare la Costituzione repubblicana dei valori dell’antifascismo e procedere ad una sua integrale revisione in chiave autoritaria con l’obiettivo dichiarato di ridurre la centralità del Parlamento, rendere pleonastica la funzione e la rappresentanza politica e sociale dei partiti e dei sindacati, rafforzare le prerogative del Capo del governo nei confronti del Parlamento, che  in base all’ “Italicum” sarà composto in larga parte ancora di “nominati”, e indebolire la funzione di equilibrio fra i poteri esercitata dal Presidente della Repubblica che potrà essere eletto, in ultima istanza, solo dai 3/5 non dei parlamentari, ma dei “votanti”.

            Repubblicanesimo e socialismo. La violenza fascista
           
            Venendo a descrivere ora l’Urbino del periodo che va dal luglio 1943 all’ agosto del 1944 e le caratteristiche del movimento partigiano, essi non sarebbero comprensibili se non richiamassimo l’influenza esercitata dalla tradizione democratico-repubblicana e socialista precedenti il fascismo. Sono queste, almeno a partire dal 1889, le forze fondamentali che veicolano a livello organizzativo gli interessi della piccola borghesia, dell’artigianato, del movimento contadino e dei primi nuclei operai, specialmente minatori impiegati nelle miniere di zolfo sulle colline prospicienti la Valle del Foglia.
            Alla svolta del secolo e nei primi anni del Novecento, sebbene i cattolici esercitassero un’influenza nella vita amministrativa e fosse intatto il potere di attrazione della Chiesa per la sua presenza sul fronte della carità, dell’assistenza materiale e spirituale, dell’ascolto, la forza politica egemonica in città e in tutto il Montefeltro, era rappresentata dal Partito repubblicano e da un leader come Francesco Budassi, sindaco dal 1903 al 1908, professore di diritto all’Università e deputato dal 1896 al 1900. L’egemonia repubblicana incomincia però ad essere messa in discussione dalla crescita del movimento contadino organizzato dal Partito socialista (la prima sezione, fondata nel 1896, l’anno seguente contava circa 50 iscritti) e guidato dal medico Domenico Gasparini, promotore di leghe operaie  e mezzadrili e di cooperative di produzione e  di consumo.
            Alla fine della Grande guerra la situazione si radicalizza: il Partito repubblicano accentua il suo declino - prodotto dall’accettazione del nazionalismo prima, e poi dall’interventismo - e dal gennaio 1921, proprio attorno a Gasparini, prende forma il primo nucleo del Partito comunista d’Italia che con i socialisti condivide una capillare organizzazione territoriale soprattutto fra i braccianti e i mezzadri. Fra il 1919 e il 1920 il Partito socialista aveva conquistato il Comune esprimendo il sindaco nella persona dell’avv. Antonio Baldeschi, mentre la direzione della Camera del lavoro passava, nel maggio del 1921, ai comunisti e il nuovo soggetto politico costituito dal Partito popolare diventava il punto di riferimento dei cattolici.
            Urbino non rappresentò per il fascismo un terreno di facile conquista. Esso, come ovunque, s’imporrà solo con la violenza e l’aggressione squadristica dall’esterno e con la connivenza degli apparati dello Stato.  Nell’agosto del 1922 squadre fasciste che avevano partecipato all’occupazione di Ancona, raggiunsero Urbino aggredendo e devastando le sedi delle organizzazioni democratiche e dei lavoratori. Gasparini riuscì a mettersi in salvo, ma il sindaco socialista Antonio Baldeschi, obiettivo della spedizione punitiva, fu costretto alle dimissioni subito accolte dal prefetto.

             Le forme dell’antifascismo popolare  tra ribellismo e coscienza politica

            Negli anni successivi e per tutto il periodo del regime si costituì nella Città, non senza lacerazioni e difficoltà, un nucleo di predominio politico espressione del notabilato cittadino e della proprietà fondiaria, ma anche di elementi del ceto impiegatizio e intellettuale che  vedevano nel fascismo il mezzo per una affermazione politico-sociale. Un potere estraneo e conflittuale al movimento popolare che riproponeva e accentuava l’antica frattura fra città e campagna in un contesto economico e produttivo che rimaneva sostanzialmente immutato. Operai, braccianti e mezzadri continuavano a costituire la grande maggioranza della popolazione del Comune, addensata nelle frazioni e nelle colline contigue  al capoluogo. La Resistenza armata antifascista non a caso muoverà dalle frazioni di campagna e avrà per protagonisti  giovani elementi del ceto popolare cittadino e, soprattutto, nuclei di operai, di braccianti e di mezzadri delle frazioni.
            L’anello che unisce le radici più profonde e organizzate dell’antifascismo popolare alla lotta armata è costituito dalla presenza di una costante ribellistica irriducibile, ma anche di diversi livelli di coscienza politica e da una sotterranea ma significativa area di dissenso e di critica. A questo proposito vanno ricordati alcuni episodi significativi: l’uccisione del fascista Marchisio che nel 1923, dopo numerose provocazioni, viene ucciso da Erivo Ferri e vere e proprie spedizioni punitive contro gli abitanti delle frazioni inclini, secondo le autorità “ad atti insurrezionali e a violenze”. In una di queste spedizioni, siamo nel 1926, contro i comunisti Rodolfo Maestrini e Silvio De Gregori, a Trazanni furono uccise due sorelle del De Gregori. Alla fine degli anni Venti e ancora negli anni Trenta risultavano presenti ed attivi nell’Urbinate, secondo i verbali di polizia, soprattutto gruppi di comunisti, ma anche di repubblicani, di anarchici e di socialisti. Nello stesso anno, in una località isolata i fratelli Francesco, Giovanni e Pasquale Poggiaspalla, aggrediscono “per vendetta politica” il fascista Francesco Agostini. Nel 1927 viene arrestato Egisto Cappellini in seguito alla scoperta, da parte della questura di Ancona, di una rete interregionale clandestina che agiva fra Marche, Emilia e Toscana.
            La presenza di forme diffuse di antifascismo popolare è comprovata dal ritrovamento presso l’Archivio centrale di stato, nel Casellario politico,  di 41 fascicoli intestati ad altrettanti urbinati. Si tratta per la maggior parte di comunisti (24), ma anche di qualche anarchico (4), di repubblicani (4), di un socialista e di altri ancora (8) definiti genericamente come “antifascisti”. Sorprende, ma fino ad un certo punto, l’estrazione sociale degli intestatari dei fascicoli perché accanto a operai, minatori, braccianti, muratori, carpentieri, si ritrovano anche impiegati, esercenti, artigiani, un insegnante e persino un possidente. Un dissenso che in molti casi si manifestava in forme e modalità piuttosto istintive mentre in alcuni casi era riconducibile al persistere di una seppur tenue organizzazione clandestina. Alcuni di questi nomi sono stati già oggetto di ricerche biografiche - Egisto Cappellini, Giuseppe Tommasini, Brenno Coen, Alessandro Lucarelli, Bruno Lugli, Erivo Ferri - mentre dei rimanenti si hanno ben poche informazioni desunte dai loro fascicoli presso il Casellario politico centrale per iniziativa di una pubblicazione dell’Anppia, l’associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. In questa sede non è possibile dedicare loro tutto lo spazio che meriterebbero.
            E’ interessante comunque notare che la maggior parte delle proteste riguardano un periodo compreso tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, proteste certamente provocate dalla crisi economica e poi dal diffuso malcontento generato dalla guerra. Ad esempio Renato Gualazzi, venditore ambulante,  siamo  nel 1941, affermava pubblicamente: “La merce è troppo cara? Andate a reclamare da Mussolini”. E l’operaio Pasquale Logli: “Balbo era un ladro, come il suo maestro Mussolini”. Il fantasioso Gino Sparaventi, di professione custode, nel 1942, aveva invece fatto riprodurre una lettera del conte Sforza al re in cui si chiedevano le dimissioni di Mussolini. Tutti pagarono con processi e anni di carcere e di confino la loro opposizione al fascismo. Sorte non migliore toccò al comunista Adolfo Foderini, minatore di Schieti che, coinvolto nell’agosto del 1922 nell’uccisione del carabiniere Di Ruscio, emigrò in Unione Sovietica dove subì le purghe staliniane scontando 17 anni di campo di lavoro. Altri furono condotti dalla coscienza politica ad arruolarsi nelle Brigate internazionali  per difendere la Repubblica spagnola contro Franco. Si tratta di Giuseppe Spallacci, Antonio Zuccaroli, Giuseppe Tommasini, Bruno Lugli, Sanzio Gambarara, Giovanni Mari. Lugli, Gambarara e Mari vi trovarono la morte fra il 1937 e il 1938. Come si vede si tratta di forme di dissenso e di vera e propria opposizione che non vanno enfatizzati, ma certo la loro presenza è importante per capire l’influenza che questo residuale antifascismo ebbe sull’organizzazione politica e nella lotta armata durante la Resistenza. Tra il 1943 e il 1944 prendeva quindi forma una radicalizzazione politica  a sinistra, nel solco tracciato dalla tradizione ideologica e associativa aperta storicamente da repubblicani e socialisti, che consentiva ai comunisti di diventare la forza egemone.

            La riorganizzazione dell’antifascismo e il passaggio alla lotta armata

            Il 22 settembre del 1943 reparti tedeschi entravano in Urbino per lasciarla solo alla vigilia della Liberazione fra il 27 e il 28 agosto 1944. Furono mesi terribili, di ansia e di paura, che tuttavia non impedirono, dopo il 25 luglio 1943, la riorganizzazione dell’antifascismo nell’ambiente dell’Università per iniziativa di un gruppo di professori tra cui Bruno Visentini, che subì per qualche tempo il carcere, Guido Rossi che aveva contatti con il movimento liberal-socialista, Luigi Cosattini, Fabio Cusin, Angelo Agrestini e, dopo l’8 settembre, Giuseppe Branca, Armando Benfenati e il direttore amministrativo Alda Maria Santini Antaldi e l’economo Mario Ermeti. Si riorganizzarono anche i socialisti attorno alla prestigiosa figura dell’ex deputato Antonio Santini e si costituiva il Partito d’Azione per iniziativa dell’avvocato Tullio Bufarale. I comunisti riallacciarono e rinsaldarono i loro precedenti contatti per merito soprattutto di Lazzaro Fontanoni, Luigi Mari, Angelo Arcangeli, Elpidio Ceccarini, Adelmo, Adler e Ribelle Annibali e Nello Gualazzi. Prendeva a riorganizzarsi anche l’antifascismo cattolico attorno alla figura coraggiosa e combattiva di Don Gino Ceccarini che fin dall’inizio della guerra aveva raccolto attorno a sé un gruppo di giovani tra i quali  Egidio Mengacci, Sergio Antonelli, Enzo Gualazzi, Neuro Bonifazi, Angelo Cordella, Corrado Tanas e molti altri ancora, che ascoltavano clandestinamente Radio Londra e che avranno poi un ruolo di rilievo nella Resistenza armata e in quella “civile”.
            Questo vasto fronte pluralistico e interclassista era non solo il sintomo evidente della delusione morale e politica prodotta dal fascismo, ma anche il dispiegarsi e l’emergere della crisi della classe dirigente locale. Nei giorni in cui si costituiva la Rsi questa, infatti, aveva dato vita ad una sorta di precaria unione civica, concepita come organismo unitario e di conciliazione fra tutte le correnti politiche compresa quella repubblichina, che trovava espressione in un “Comitato esecutivo dei cittadini urbinati” presieduto dal podestà Giorgio Paci. Tutto questo avveniva mentre  attorno alle mura si sviluppava la guerriglia contro i tedeschi e contro i fascisti soprattutto dopo i fatti accaduti a Ca’ Mazzasette, troppo noti per essere qui ricordati.
             Lo scontro di  Ca’ Mazzasette costituisce l’inizio e pone le basi per l’ulteriore sviluppo della lotta armata in provincia con la costituzione  del primo nucleo della futura Brigata Garibaldi “Pesaro”. Esso segnò anche la crisi irreversibile dell’attendismo del “Comitato esecutivo dei cittadini urbinati” che aveva avvallato la ricostituzione del fascio locale senza impedire il 16 dicembre 1943 l’installazione di un vero e proprio presidio militare tedesco in città.
            A nulla servirono i bandi della Rsi né il cosiddetto bando Mussolini del maggio 1944 che chiedeva ai partigiani di presentarsi presso le caserme della Guardia nazionale repubblicana entro il 25 maggio, assicurando loro l’impunità. L’invito, ripetuto  a lungo da radio, giornali, manifesti, non ebbe alcuna conseguenza. A Schieti, addirittura, i giovani risposero con la partenza in massa per la montagna con l’intento di unirsi alle bande partigiane.
            L’inverno 1943-44 fu un periodo terribile per tutta la nostra provincia. Le fortificazioni della Linea gotica esponevano il capoluogo provinciale e tutta un’area dell’entroterra abbastanza ampia e profonda, ai pesanti bombardamenti alleati che procurarono gravi danni, numerose vittime fra i civili e il conseguente sfollamento in direzione della fascia collinare appenninica. Le prime vittime innocenti furono 14 persone, di cui 12 ragazzi che a Pesaro giocavano sul piazzale Castelfidardo, uccise il 17 novembre 1943 da tiri di prova dei tedeschi dal monte al mare.
            Se il 1943 si chiudeva, il 28 dicembre, con il primo bombardamento di Pesaro che danneggiò diverse case di Soria Bassa  procurando “crateri paurosi tutt’intorno”, il 1944 fu un anno terribile. Nella notte tra il 3 e 4 gennaio due cacciatorpediniere inglesi aprirono il fuoco sulla città per due ore consecutive. La maggior parte dei colpi cadde sul rione del Porto e su quello di Pantano, sulla linea costiera e la campagna circostante.
            Ma l’evento più tragico accadde senza dubbio ad Urbania che il 23 gennaio subì le conseguenze di un bombardamento eseguito per errore dagli Alleati. Le vittime risultarono 250 e 515 i feriti.  Inoltre 248 risultarono le case distrutte e numerose quelle danneggiate. Ma era ancora Pesaro a subire le incursioni aeree alleate più pesanti. Il 24 marzo furono colpiti il tronco ferroviario, la strada di Muraglia, Flaminia vecchia e S.Veneranda. Il 24  e 25 aprile si verificarono le incursioni più spaventose, in pieno giorno. Le distruzioni più serie si ebbero ancora a Pantano, nel rione del Trebbio e in pieno centro storico con 100 case distrutte e 18 vittime per il crollo di due rifugi antiaerei. Per molte settimane, due volte al giorno, si  verificarono incursioni di cacciabombardieri con voli radenti e sganci precisi su obiettivi militari e la linea ferroviaria lungo il Foglia. Ancora il 28 agosto Pesaro subiva un ultimo attacco aereo,  poche ore prima della sua liberazione, che procurava danni alla piazza principale e al palazzo delle Poste.
            Al terrore per i bombardamenti si aggiungevano le  brutalità e le violenze quotidiane esercitate dai tedeschi. Nella loro strategia dettata dal generale Kesselring, di fronte alle sempre più efficaci azioni della guerriglia partigiana, le truppe germaniche dovevano conseguire un doppio obiettivo: colpire i partigiani, ma anche far comprendere alle popolazioni le possibili conseguenze sui civili delle azioni dei “ribelli”. Le popolazioni dovevano considerare causa delle eventuali rappresaglie nei loro confronti non gli occupanti, ma i partigiani ai quali non doveva essere dato alcun aiuto o appoggio. La strategia nazista preparava il terreno per la radicalizzazione della lotta contro la guerriglia in quanto l’incarico di distruggere le “bande” si identificava con l’autorizzazione a massacrare i civili.
            Le conseguenze di queste disposizioni ebbero il loro tragico effetto nella vera e propria strage di innocenti che ebbe luogo il 7 di aprile a Fragheto di Casteldelci, all’estremità nord-occidentale della provincia. Una strage attuata con la medesima metodologia criminale applicata nei borghi dell’Appennino emiliano messi a ferro e fuoco dalle SS di Reader. Le 30 vittime di Fragheto erano in gran parte donne, vecchi e bambini. Di questi ultimi, 7 avevano meno di otto anni. La lista si allungherà con l’uccisione per rappresaglia, il 6 luglio, di 14 civili al Predio Valpietro e a San Lorenzo in Torre nel comune di Urbania. Altre rappresaglie furono attuate ad Orsaiola, a Pieve del Colle e a San Bartolo, sempre nel comune di Urbania, ai quali vanno aggiunti altri 16 civili deceduti nel corso di azioni belliche. Inoltre, causa di un altro errore commesso da un aereo inglese, il 23 di luglio, morirono a Calultimo, sperduta frazione del comune di Sassocorvaro, 10 persone, tra cui due bambini di otto anni, uno di due ed uno di sette mesi. Un tragico tributo, certo inesatto per difetto, di circa 500 vittime e di almeno 700 feriti in tutto il territorio provinciale.    
            A Urbino si distinsero per ferocia e crudeltà i militi fascisti della “Tagliamento”: sei furono i  fucilati delle Vigne il 14 luglio, preceduti il giorno 2 dalla fucilazione dei giovanissimi Aldo Arcangeli e Pasquale Mazzacchera, “disertori catturati con le armi alla mano”, come si legge nel comunicato con cui i fascisti ne diedero notizia. Poco prima, il 19 marzo, nella zona di Montesoffio erano stati catturati dopo un prolungato scontro a fuoco, i partigiani garibaldini Giannetto Dini e Ferdinando Salvalai, che come è noto furono poi tradotti dai tedeschi a Massa Lombarda e qui assassinati. Il 17 giugno nel podere “il Perlo di sotto”, subito a ridosso delle mura di Lavagine, i tedeschi avevano ucciso Errigo Bernini, Gino Savini, Giuseppe Zeppi e il figlio Enzo.

            La protezione degli Ebrei

            Una pagina che meriterebbe di essere raccontata più ampiamente è quella riguardante gli urbinati di origine ebraica già duramente colpiti dalle leggi razziali del 1938. Quelle stesse leggi razziali che causarono l’allontanamento dalla nostra Università di tre docenti di prim’ordine come Cesare Musatti, il padre della psicoanalisi italiana, di Isacco Sciacky, originario si Salonicco, già allievo di Lamanna e vice-preside della appena istituita Facoltà di Magistero, e di Renato Treves, il fondatore della sociologia giuridica. Sciacky, che era sionista, nel 1939 emigrò in Palestina e dopo il 1948 ricoprì importanti incarichi  nel settore dell’educazione e della giustizia nel governo dello Stato di Israele. Anche Treves emigrò, ma in Argentina. Qui, all’università di Tucuman, con Rodolfo Mondolfo e Gino Germani, contribuì a fare di quella università un centro di cultura democratica e di umanesimo socialista. A proposito di quanto accaduto, Carlo Bo ha scritto di “un tempo di vergognosa violenza e di oltraggio all’uomo. Ricordo molto bene - racconta -  quel periodo, soprattutto ricordo il giorno in cui il professor Musatti fu chiamato dal rettore di ritorno da Roma con la risposta del Ministero: non poteva più insegnare. E’ stato uno spettacolo drammatico: l’illustre collega era stato distrutto. Quello però fu soltanto l’inizio di una guerra lunga e sempre più feroce. Tutto questo avveniva poi nella nostra città  così ricca di spirito fraterno e dove gli ebrei avevano contribuito a nutrire la memoria della libertà”.  
            Ai 30 urbinati di origine ebraica  registrati nel novembre del 1938, se ne aggiunsero poi alcune decine comprendenti ebrei originari della città e altri che vi erano sfollati. Circa la metà di questi erano stranieri,  in gran parte apolidi, provenienti da Trieste e di nazionalità croata, greca, bulgara, turca e austriaca. Alla fine del 1943 erano 67 gli ebrei presenti in Urbino, la maggior parte dei quali residenti nel centro storico o nelle campagne circostanti. Attorno a loro si sviluppò una generale e straordinaria solidarietà, testimoniata dalla assenza di delazioni, per evitare che fossero consegnati dai repubblichini ai tedeschi  ed essere deportati nei campi della morte. Tutti furono protetti e nascosti in case private e in conventi e tutti ebbero salva la vita ad eccezione di Arturo Neisser, apolide berlinese di 68 anni. Il Neisser da Urbino era risalito fino a Sondrio, forse per tentare un difficile passaggio in Svizzera, ed era stato carcerato a Milano. Condotto successivamente al campo di raccolta di Bolzano-Gries, fu tradotto ad Auschwitz e ucciso al suo arrivo il 28 ottobre. Tra i tanti che  si distinsero nel prestare aiuto agli ebrei, ma anche ai partigiani e ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento, vanno ricordati oltre a  don Gino Ceccarini, i sacerdoti don Dante Lucerna,  don Adelelmo Federici, don Gino Loppi e don Pietro Moneta. E inoltre: le suore agostiniane del convento di Santa Caterina; l’assistente carceraria Concetta Ceccarini Logli; gli impiegati comunali Luigi Micheli e Carlo Paolucci che fornirono documenti falsi e avvertivano dei probabili arresti decisi dalla Guardia nazionale repubblicana; il dottor Severino Baiardi, medico delle carceri e il dottor Aurelio Caruso, chirurgo dell’ospedale civile. E tuttavia anche Urbino ebbe i suoi ebrei deportati. Si tratta dei 13 ebrei, quasi tutti stranieri, catturati a S. Angelo in Vado nel rastrellamento del 12 agosto 1944 effettuato dal comando tedesco e prelevati dall’ospedale civile di Urbino. Trasferiti  a Forlì furono qui fucilati nel campo di aviazione tra il 5 e il 17 settembre.

            Il terribile inverno 1943-44 e la liberazione della città

            L’inverno ’43-’44 fu il periodo più drammatico anche per la nostra città. C’era penuria di generi alimentari e la popolazione temeva i bombardamenti e il rischio incombente di possibili rappresaglie. L’essere  a cavallo della Linea  gotica, lungo cui i tedeschi apprestavano le difese, costituiva un oggettivo  pericolo. I problemi si erano nel frattempo accresciuti  per la presenza di più di 4 mila sfollati e il trasferimento  di tutto l’apparato amministrativo e degli organi politici della Provincia con il relativo personale. Per di più alla fine di maggio del ‘44  un comando delle SS era stato istituito in città. Importante fu il dispiegarsi di un canale di  mediazione con il comando germanico e una vera e propria attività diplomatica, che ebbe per protagonista l’Arcivescovo Antonio Tani, diretta ad ottenere per Urbino lo status di “città aperta” al fine di  allontanare il pericolo di devastanti operazioni belliche e a tutela del patrimonio artistico e architettonico.
            Dal punto di vista dell’analisi storiografica, consegnata in numerose pubblicazioni, nell’Urbinate, si è di fronte a un  quadro politico-militare, che conferma gli elementi essenziali che hanno caratterizzato la Resistenza. Si pensi al contributo degli ex prigionieri slavi e britannici,  all’andata in montagna dei renitenti alla leva, alla protezione delle popolazioni messa in campo dal Cln e dalla Curia. Un movimento resistenziale che nell’agosto del ’44, al momento dell’arrivo degli Alleati, poteva contare in tutta la provincia, su quasi 2 mila effettivi,  di cui ben 413 inquadrati nei Gap di Schieti, distribuiti in due brigate a loro volta articolate in battaglioni e distaccamenti.
            Nei racconti dell’esperienza partigiana di tanti protagonisti  un dato costante, comune a tutti, è il ritorno nei luoghi d’origine dopo l’8 settembre1943, il darsi alla macchia, la costituzione delle prime bande armate e il tentativo di stabilire contatti con il CLN locale. Nell’Urbinate, quindi,  si riscontrano  tutte le fasi organizzative e politiche della Resistenza marchigiana e nazionale: il travaglio preparatorio delle forze antifasciste fino attorno all’ottobre del ’43; il decollo della guerriglia in una situazione di movimento anche sociale e di radicamento su un’ampia base popolare durante tutto l’inverno ‘43-’44; l’organizzazione di un’ampia e diffusa rete di guerriglia che viene a coincidere con una prima strategia partigiana centralizzata su scala regionale, nella primavera del ’44 e che, nonostante i rastrellamenti e la presenza dell’autorità repubblichina, fa registrare il controllo di parte del territorio; il momento, infine, tra giugno e i primi di settembre del ’44, della liberazione di un notevole numero di centri piccoli e medi.
            Il 28 agosto di sessant’anni fa, dunque, gruppi di partigiani precedendo le truppe del Corpo italiano di liberazione e quelle del V Corpo britannico, liberavano Urbino e l’intera provincia dall’incubo dell’occupazione tedesca e dalle atrocità dei repubblichini.
            La città lentamente riprendeva a vivere, quasi stupita di avere superato senza danni irreparabili un pericolo tanto terribile, ma è  comunque prostrata. Qualche mese più tardi, il quadro tracciato dal sindaco del Cln, Giovanni Fanelli, nella Relazione mensile al Governatore militare alleato, è preoccupante: scarseggiano gli approvvigionamenti alimentari e l’acqua potabile, l’agricoltura fatica a riprendersi per le requisizioni e le distruzioni, mancano i servizi pubblici di trasporto per persone e merci, c’è necessità di medicinali per il servizio sanitario e per combattere le malattie infettive, si segnalano 295 casi di scabbia e 50 di  influenza. Difficile è anche la situazione delle scuole che non funzionano regolarmente per la precarietà dei locali, soprattutto nelle frazioni del Comune.
            Ma era tutta  la contabilità delle distruzioni riportate dalla provincia di Pesaro-Urbino a risultare altamente drammatica: la rete stradale registrava 750 interruzioni e 200 erano i ponti crollati o inagibili. La provincia, tra le quattro delle Marche, era quella che aveva subito le maggiori distruzioni, valutate in 30 miliardi di lire di allora. L’agricoltura  presentava i danni più rilevanti, soprattutto nella Valle del Foglia, a ridosso della Linea Gotica, dove 3 mila ettari di terreno, tra i più fertili, risultavano impraticabili per le mine e la perdita del bestiame era pari al 40% di tutto il patrimonio zootecnico provinciale. Le case distrutte ammontavano a 1.474, quelle danneggiate gravemente a 808 e altre 2.305 avevano riportato danni  di minore entità. I vani completamente distrutti  ammontavano a 37 mila e altri 87 mila semidistrutti. Diversi  paesi avevano riportato gravi distruzioni e due, Montecchio e Pozzo Basso, erano stati rasi al suolo. L’apparato industriale era andato quasi del tutto perduto, privato del materiale e dei macchinari smantellati dai tedeschi. Anche la rete ferroviaria risultava sconvolta: sia la Metaurense, che collegava Urbino a Fano, sia la Urbino-Fermignano-Pergola-Fabriano che garantiva i collegamenti con la Valle del Tevere e la capitale.
            Un capitolo a  parte riguardò la bonifica dei campi minati nella Valle del Foglia che “dopo lo sfondamento della Linea Gotica era un insieme di macerie, residuati bellici di ogni tipo, case coloniche trasformate in fortini, terreni diventati depositi esplosivi e soprattutto campi minati”. Il lavoro, condotto da 70 sminatori, durò tre anni. Furono integralmente bonificati circa 10 milioni di metri quadrati di terreno, da Mercatale al mare e da Marcatale verso l’interno, fino a S.Sisto, 300 km. di strade, 87 km. di ferrovia, 76 ponti, 84 case di abitazione. Si rinvennero e furono fatte brillare circa 300 mila mine. Morirono 12 sminatori, 6 rimasero mutilati e 8 feriti.   
            Il cammino della ricostruzione sarà lungo e difficile. Lo sanno bene gli urbinati della mia generazione la cui infanzia è coincisa con quel periodo.  Ma questa è un’altra storia. Grazie per l’attenzione.

            Ermanno  Torrico
                
Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione “E. Cappellini” di Urbino


Nessun commento:

Posta un commento