25 Aprile 2016
Gli anniversari nascondono sempre
delle insidie perché è facile cadere nella retorica celebrativa o, all’opposto,
in una lettura storiografica specialistica e accademica. Per tenermi lontano da
queste insidie mi sono allora imposto di preparare un testo scritto per
intrecciare l’esigenza del racconto e della memoria con una lettura storiografica che ne costituisca
il contesto e la bussola obbligati. Lettura storiografica che deve sempre
essere aggiornata e questo vale anche per la storiografia della Resistenza che
negli ultimi vent’anni ha compiuto passi notevoli in una messa a punto
interpretativa che riconosce, al di là degli aspetti militari e della dialettica
fascismo-antifascismo, la presenza di una pluralità di soggetti che hanno avuto un ruolo diverso
e tuttavia importante: dal contributo dei militari alla cosiddetta “resistenza civile” delle
popolazioni, dal clero alle donne e al dibattito e ai contrasti nei Cln.
Prima dunque di descrivere la realtà
di Urbino nel terribile periodo 1943-44, occorre prendere atto che nell’Italia
di oggi la Guerra di Liberazione continua ad essere non solo un problema
storiografico. L’attuale Governo del Paese, infatti, si sta allontanando sempre
più dagli ideali della Resistenza e dalla grande eredità che di ha lasciato,
vale a dire la Carta costituzionale. E
se guardiamo allo pseudo-dibattito in corso, soprattutto sui media, credo non sia esagerato definirlo
come la continuazione della politica con altri mezzi. E’ evidente a tutti,
infatti, che la revisione della Costituzione che sarà sottoposta a referendum
il prossimo ottobre, intende svuotare la Costituzione repubblicana dei valori
dell’antifascismo e procedere ad una sua integrale revisione in chiave
autoritaria con l’obiettivo dichiarato di ridurre la centralità del Parlamento,
rendere pleonastica la funzione e la rappresentanza politica e sociale dei
partiti e dei sindacati, rafforzare le prerogative del Capo del governo nei
confronti del Parlamento, che in base
all’ “Italicum” sarà composto in larga parte ancora di “nominati”, e indebolire
la funzione di equilibrio fra i poteri esercitata dal Presidente della
Repubblica che potrà essere eletto, in ultima istanza, solo dai 3/5 non dei
parlamentari, ma dei “votanti”.
Repubblicanesimo
e socialismo. La violenza fascista
Venendo a descrivere ora l’Urbino
del periodo che va dal luglio 1943 all’ agosto del 1944 e le caratteristiche
del movimento partigiano, essi non sarebbero comprensibili se non richiamassimo
l’influenza esercitata dalla tradizione democratico-repubblicana e socialista
precedenti il fascismo. Sono queste, almeno a partire dal 1889, le forze
fondamentali che veicolano a livello organizzativo gli interessi della piccola
borghesia, dell’artigianato, del movimento contadino e dei primi nuclei operai,
specialmente minatori impiegati nelle miniere di zolfo sulle colline
prospicienti la Valle del Foglia.
Alla svolta del secolo e nei primi
anni del Novecento, sebbene i cattolici esercitassero un’influenza nella vita
amministrativa e fosse intatto il potere di attrazione della Chiesa per la sua
presenza sul fronte della carità, dell’assistenza materiale e spirituale,
dell’ascolto, la forza politica egemonica in città e in tutto il Montefeltro,
era rappresentata dal Partito repubblicano e da un leader come Francesco
Budassi, sindaco dal 1903 al 1908, professore di diritto all’Università e
deputato dal 1896 al 1900. L’egemonia repubblicana incomincia però ad essere
messa in discussione dalla crescita del movimento contadino organizzato dal
Partito socialista (la prima sezione, fondata nel 1896, l’anno seguente contava
circa 50 iscritti) e guidato dal medico Domenico Gasparini, promotore di leghe
operaie e mezzadrili e di cooperative di
produzione e di consumo.
Alla fine della Grande guerra la
situazione si radicalizza: il Partito repubblicano accentua il suo declino -
prodotto dall’accettazione del nazionalismo prima, e poi dall’interventismo - e
dal gennaio 1921, proprio attorno a Gasparini, prende forma il primo nucleo del
Partito comunista d’Italia che con i socialisti condivide una capillare
organizzazione territoriale soprattutto fra i braccianti e i mezzadri. Fra il
1919 e il 1920 il Partito socialista aveva conquistato il Comune esprimendo il
sindaco nella persona dell’avv. Antonio Baldeschi, mentre la direzione della
Camera del lavoro passava, nel maggio del 1921, ai comunisti e il nuovo
soggetto politico costituito dal Partito popolare diventava il punto di
riferimento dei cattolici.
Urbino non rappresentò per il
fascismo un terreno di facile conquista. Esso, come ovunque, s’imporrà solo con
la violenza e l’aggressione squadristica dall’esterno e con la connivenza degli
apparati dello Stato. Nell’agosto del
1922 squadre fasciste che avevano partecipato all’occupazione di Ancona,
raggiunsero Urbino aggredendo e devastando le sedi delle organizzazioni
democratiche e dei lavoratori. Gasparini riuscì a mettersi in salvo, ma il
sindaco socialista Antonio Baldeschi, obiettivo della spedizione punitiva, fu
costretto alle dimissioni subito accolte dal prefetto.
Le forme dell’antifascismo popolare tra ribellismo e coscienza politica
Negli anni successivi e per tutto il
periodo del regime si costituì nella Città, non senza lacerazioni e difficoltà,
un nucleo di predominio politico espressione del notabilato cittadino e della
proprietà fondiaria, ma anche di elementi del ceto impiegatizio e intellettuale
che vedevano nel fascismo il mezzo per
una affermazione politico-sociale. Un potere estraneo e conflittuale al movimento
popolare che riproponeva e accentuava l’antica frattura fra città e campagna in
un contesto economico e produttivo che rimaneva sostanzialmente immutato.
Operai, braccianti e mezzadri continuavano a costituire la grande maggioranza
della popolazione del Comune, addensata nelle frazioni e nelle colline
contigue al capoluogo. La Resistenza
armata antifascista non a caso muoverà dalle frazioni di campagna e avrà per
protagonisti giovani elementi del ceto
popolare cittadino e, soprattutto, nuclei di operai, di braccianti e di
mezzadri delle frazioni.
L’anello che unisce le radici più
profonde e organizzate dell’antifascismo popolare alla lotta armata è
costituito dalla presenza di una costante ribellistica irriducibile, ma anche
di diversi livelli di coscienza politica e da una sotterranea ma significativa
area di dissenso e di critica. A questo proposito vanno ricordati alcuni
episodi significativi: l’uccisione del fascista Marchisio che nel 1923, dopo
numerose provocazioni, viene ucciso da Erivo Ferri e vere e proprie spedizioni
punitive contro gli abitanti delle frazioni inclini, secondo le autorità “ad
atti insurrezionali e a violenze”. In una di queste spedizioni, siamo nel 1926,
contro i comunisti Rodolfo Maestrini e Silvio De Gregori, a Trazanni furono
uccise due sorelle del De Gregori. Alla fine degli anni Venti e ancora negli
anni Trenta risultavano presenti ed attivi nell’Urbinate, secondo i verbali di
polizia, soprattutto gruppi di comunisti, ma anche di repubblicani, di
anarchici e di socialisti. Nello stesso anno, in una località isolata i
fratelli Francesco, Giovanni e Pasquale Poggiaspalla, aggrediscono “per
vendetta politica” il fascista Francesco Agostini. Nel 1927 viene arrestato
Egisto Cappellini in seguito alla scoperta, da parte della questura di Ancona,
di una rete interregionale clandestina che agiva fra Marche, Emilia e Toscana.
La presenza di forme diffuse di
antifascismo popolare è comprovata dal ritrovamento presso l’Archivio centrale
di stato, nel Casellario politico, di 41
fascicoli intestati ad altrettanti urbinati. Si tratta per la maggior parte di
comunisti (24), ma anche di qualche anarchico (4), di repubblicani (4), di un
socialista e di altri ancora (8) definiti genericamente come “antifascisti”.
Sorprende, ma fino ad un certo punto, l’estrazione sociale degli intestatari
dei fascicoli perché accanto a operai, minatori, braccianti, muratori,
carpentieri, si ritrovano anche impiegati, esercenti, artigiani, un insegnante
e persino un possidente. Un dissenso che in molti casi si manifestava in forme
e modalità piuttosto istintive mentre in alcuni casi era riconducibile al
persistere di una seppur tenue organizzazione clandestina. Alcuni di questi
nomi sono stati già oggetto di ricerche biografiche - Egisto Cappellini, Giuseppe
Tommasini, Brenno Coen, Alessandro Lucarelli, Bruno Lugli, Erivo Ferri - mentre
dei rimanenti si hanno ben poche informazioni desunte dai loro fascicoli presso
il Casellario politico centrale per iniziativa di una pubblicazione
dell’Anppia, l’associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. In
questa sede non è possibile dedicare loro tutto lo spazio che meriterebbero.
E’ interessante comunque notare che
la maggior parte delle proteste riguardano un periodo compreso tra la fine
degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, proteste certamente
provocate dalla crisi economica e poi dal diffuso malcontento generato dalla
guerra. Ad esempio Renato Gualazzi, venditore ambulante, siamo
nel 1941, affermava pubblicamente: “La merce è troppo cara? Andate a
reclamare da Mussolini”. E l’operaio Pasquale Logli: “Balbo era un ladro, come
il suo maestro Mussolini”. Il fantasioso Gino Sparaventi, di professione
custode, nel 1942, aveva invece fatto riprodurre una lettera del conte Sforza
al re in cui si chiedevano le dimissioni di Mussolini. Tutti pagarono con
processi e anni di carcere e di confino la loro opposizione al fascismo. Sorte
non migliore toccò al comunista Adolfo Foderini, minatore di Schieti che,
coinvolto nell’agosto del 1922 nell’uccisione del carabiniere Di Ruscio, emigrò
in Unione Sovietica dove subì le purghe staliniane scontando 17 anni di campo
di lavoro. Altri furono condotti dalla coscienza politica ad arruolarsi nelle
Brigate internazionali per difendere la
Repubblica spagnola contro Franco. Si tratta di Giuseppe Spallacci, Antonio
Zuccaroli, Giuseppe Tommasini, Bruno Lugli, Sanzio Gambarara, Giovanni Mari.
Lugli, Gambarara e Mari vi trovarono la morte fra il 1937 e il 1938. Come si vede si tratta di forme di dissenso e
di vera e propria opposizione che non vanno enfatizzati, ma certo la loro
presenza è importante per capire l’influenza che questo residuale antifascismo
ebbe sull’organizzazione politica e nella lotta armata durante la Resistenza.
Tra il 1943 e il 1944 prendeva quindi forma una radicalizzazione politica a sinistra, nel solco tracciato dalla
tradizione ideologica e associativa aperta storicamente da repubblicani e
socialisti, che consentiva ai comunisti di diventare la forza egemone.
La
riorganizzazione dell’antifascismo e il passaggio alla lotta armata
Il 22 settembre del 1943 reparti
tedeschi entravano in Urbino per lasciarla solo alla vigilia della Liberazione
fra il 27 e il 28 agosto 1944. Furono mesi terribili, di ansia e di paura, che
tuttavia non impedirono, dopo il 25 luglio 1943, la riorganizzazione
dell’antifascismo nell’ambiente dell’Università per iniziativa di un gruppo di
professori tra cui Bruno Visentini, che subì per qualche tempo il carcere,
Guido Rossi che aveva contatti con il movimento liberal-socialista, Luigi
Cosattini, Fabio Cusin, Angelo Agrestini e, dopo l’8 settembre, Giuseppe
Branca, Armando Benfenati e il direttore amministrativo Alda Maria Santini
Antaldi e l’economo Mario Ermeti. Si riorganizzarono anche i socialisti attorno
alla prestigiosa figura dell’ex deputato Antonio Santini e si costituiva il
Partito d’Azione per iniziativa dell’avvocato Tullio Bufarale. I comunisti
riallacciarono e rinsaldarono i loro precedenti contatti per merito soprattutto
di Lazzaro Fontanoni, Luigi Mari, Angelo Arcangeli, Elpidio Ceccarini, Adelmo,
Adler e Ribelle Annibali e Nello Gualazzi. Prendeva a riorganizzarsi anche
l’antifascismo cattolico attorno alla figura coraggiosa e combattiva di Don
Gino Ceccarini che fin dall’inizio della guerra aveva raccolto attorno a sé un
gruppo di giovani tra i quali Egidio
Mengacci, Sergio Antonelli, Enzo Gualazzi, Neuro Bonifazi, Angelo Cordella,
Corrado Tanas e molti altri ancora, che ascoltavano clandestinamente Radio
Londra e che avranno poi un ruolo di rilievo nella Resistenza armata e in
quella “civile”.
Questo vasto fronte pluralistico e
interclassista era non solo il sintomo evidente della delusione morale e
politica prodotta dal fascismo, ma anche il dispiegarsi e l’emergere della
crisi della classe dirigente locale. Nei giorni in cui si costituiva la Rsi
questa, infatti, aveva dato vita ad una sorta di precaria unione civica,
concepita come organismo unitario e di conciliazione fra tutte le correnti
politiche compresa quella repubblichina, che trovava espressione in un
“Comitato esecutivo dei cittadini urbinati” presieduto dal podestà Giorgio
Paci. Tutto questo avveniva mentre
attorno alle mura si sviluppava la guerriglia contro i tedeschi e contro
i fascisti soprattutto dopo i fatti accaduti a Ca’ Mazzasette, troppo noti per
essere qui ricordati.
Lo scontro di
Ca’ Mazzasette costituisce l’inizio e pone le basi per l’ulteriore
sviluppo della lotta armata in provincia con la costituzione del primo nucleo della futura Brigata
Garibaldi “Pesaro”. Esso segnò anche la crisi irreversibile dell’attendismo del
“Comitato esecutivo dei cittadini urbinati” che aveva avvallato la
ricostituzione del fascio locale senza impedire il 16 dicembre 1943
l’installazione di un vero e proprio presidio militare tedesco in città.
A nulla servirono i bandi della Rsi
né il cosiddetto bando Mussolini del maggio 1944 che chiedeva ai partigiani di
presentarsi presso le caserme della Guardia nazionale repubblicana entro il 25
maggio, assicurando loro l’impunità. L’invito, ripetuto a lungo da radio, giornali, manifesti, non
ebbe alcuna conseguenza. A Schieti, addirittura, i giovani risposero con la
partenza in massa per la montagna con l’intento di unirsi alle bande
partigiane.
L’inverno 1943-44 fu un periodo
terribile per tutta la nostra provincia. Le fortificazioni della Linea gotica
esponevano il capoluogo provinciale e tutta un’area dell’entroterra abbastanza
ampia e profonda, ai pesanti bombardamenti alleati che procurarono gravi danni,
numerose vittime fra i civili e il conseguente sfollamento in direzione della
fascia collinare appenninica. Le prime vittime innocenti furono 14 persone, di
cui 12 ragazzi che a Pesaro giocavano sul piazzale Castelfidardo, uccise il 17
novembre 1943 da tiri di prova dei tedeschi dal monte al mare.
Se il 1943 si chiudeva, il 28
dicembre, con il primo bombardamento di Pesaro che danneggiò diverse case di
Soria Bassa procurando “crateri paurosi
tutt’intorno”, il 1944 fu un anno terribile. Nella notte tra il 3 e 4 gennaio
due cacciatorpediniere inglesi aprirono il fuoco sulla città per due ore
consecutive. La maggior parte dei colpi cadde sul rione del Porto e su quello
di Pantano, sulla linea costiera e la campagna circostante.
Ma l’evento più tragico accadde
senza dubbio ad Urbania che il 23 gennaio subì le conseguenze di un
bombardamento eseguito per errore dagli Alleati. Le vittime risultarono 250 e
515 i feriti. Inoltre 248 risultarono le
case distrutte e numerose quelle danneggiate. Ma era ancora Pesaro a subire le
incursioni aeree alleate più pesanti. Il 24 marzo furono colpiti il tronco
ferroviario, la strada di Muraglia, Flaminia vecchia e S.Veneranda. Il 24 e 25 aprile si verificarono le incursioni più
spaventose, in pieno giorno. Le distruzioni più serie si ebbero ancora a
Pantano, nel rione del Trebbio e in pieno centro storico con 100 case distrutte
e 18 vittime per il crollo di due rifugi antiaerei. Per molte settimane, due
volte al giorno, si verificarono
incursioni di cacciabombardieri con voli radenti e sganci precisi su obiettivi
militari e la linea ferroviaria lungo il Foglia. Ancora il 28 agosto Pesaro
subiva un ultimo attacco aereo, poche
ore prima della sua liberazione, che procurava danni alla piazza principale e
al palazzo delle Poste.
Al terrore per i bombardamenti si
aggiungevano le brutalità e le violenze
quotidiane esercitate dai tedeschi. Nella loro strategia dettata dal generale
Kesselring, di fronte alle sempre più efficaci azioni della guerriglia
partigiana, le truppe germaniche dovevano conseguire un doppio obiettivo:
colpire i partigiani, ma anche far comprendere alle popolazioni le possibili
conseguenze sui civili delle azioni dei “ribelli”. Le popolazioni dovevano
considerare causa delle eventuali rappresaglie nei loro confronti non gli
occupanti, ma i partigiani ai quali non doveva essere dato alcun aiuto o
appoggio. La strategia nazista preparava il terreno per la radicalizzazione
della lotta contro la guerriglia in quanto l’incarico di distruggere le “bande”
si identificava con l’autorizzazione a massacrare i civili.
Le conseguenze di queste
disposizioni ebbero il loro tragico effetto nella vera e propria strage di
innocenti che ebbe luogo il 7 di aprile a Fragheto di Casteldelci,
all’estremità nord-occidentale della provincia. Una strage attuata con la
medesima metodologia criminale applicata nei borghi dell’Appennino emiliano
messi a ferro e fuoco dalle SS di Reader. Le 30 vittime di Fragheto erano in
gran parte donne, vecchi e bambini. Di questi ultimi, 7 avevano meno di otto
anni. La lista si allungherà con l’uccisione per rappresaglia, il 6 luglio, di
14 civili al Predio Valpietro e a San Lorenzo in Torre nel comune di Urbania.
Altre rappresaglie furono attuate ad Orsaiola, a Pieve del Colle e a San
Bartolo, sempre nel comune di Urbania, ai quali vanno aggiunti altri 16 civili
deceduti nel corso di azioni belliche. Inoltre, causa di un altro errore
commesso da un aereo inglese, il 23 di luglio, morirono a Calultimo, sperduta
frazione del comune di Sassocorvaro, 10 persone, tra cui due bambini di otto
anni, uno di due ed uno di sette mesi. Un tragico tributo, certo inesatto per
difetto, di circa 500 vittime e di almeno 700 feriti in tutto il territorio
provinciale.
A Urbino si distinsero per ferocia e
crudeltà i militi fascisti della “Tagliamento”: sei furono i fucilati delle Vigne il 14 luglio, preceduti
il giorno 2 dalla fucilazione dei giovanissimi Aldo Arcangeli e Pasquale
Mazzacchera, “disertori catturati con le armi alla mano”, come si legge nel comunicato
con cui i fascisti ne diedero notizia. Poco prima, il 19 marzo, nella zona di
Montesoffio erano stati catturati dopo un prolungato scontro a fuoco, i
partigiani garibaldini Giannetto Dini e Ferdinando Salvalai, che come è noto
furono poi tradotti dai tedeschi a Massa Lombarda e qui assassinati. Il 17
giugno nel podere “il Perlo di sotto”, subito a ridosso delle mura di Lavagine,
i tedeschi avevano ucciso Errigo Bernini, Gino Savini, Giuseppe Zeppi e il
figlio Enzo.
La
protezione degli Ebrei
Una pagina che meriterebbe di essere
raccontata più ampiamente è quella riguardante gli urbinati di origine ebraica
già duramente colpiti dalle leggi razziali del 1938. Quelle stesse leggi
razziali che causarono l’allontanamento dalla nostra Università di tre docenti
di prim’ordine come Cesare Musatti, il padre della psicoanalisi italiana, di
Isacco Sciacky, originario si Salonicco, già allievo di Lamanna e vice-preside
della appena istituita Facoltà di Magistero, e di Renato Treves, il fondatore
della sociologia giuridica. Sciacky, che era sionista, nel 1939 emigrò in
Palestina e dopo il 1948 ricoprì importanti incarichi nel settore dell’educazione e della giustizia
nel governo dello Stato di Israele. Anche Treves emigrò, ma in Argentina. Qui,
all’università di Tucuman, con Rodolfo Mondolfo e Gino Germani, contribuì a
fare di quella università un centro di cultura democratica e di umanesimo
socialista. A proposito di quanto accaduto, Carlo Bo ha scritto di “un tempo di
vergognosa violenza e di oltraggio all’uomo. Ricordo molto bene - racconta - quel periodo, soprattutto ricordo il giorno
in cui il professor Musatti fu chiamato dal rettore di ritorno da Roma con la
risposta del Ministero: non poteva più insegnare. E’ stato uno spettacolo
drammatico: l’illustre collega era stato distrutto. Quello però fu soltanto
l’inizio di una guerra lunga e sempre più feroce. Tutto questo avveniva poi
nella nostra città così ricca di spirito
fraterno e dove gli ebrei avevano contribuito a nutrire la memoria della
libertà”.
Ai
30 urbinati di origine ebraica registrati nel novembre del 1938, se ne
aggiunsero poi alcune decine comprendenti ebrei originari della città e altri
che vi erano sfollati. Circa la metà di questi erano stranieri, in gran parte apolidi, provenienti da Trieste
e di nazionalità croata, greca, bulgara, turca e austriaca. Alla fine del 1943
erano 67 gli ebrei presenti in Urbino, la maggior parte dei quali residenti nel
centro storico o nelle campagne circostanti. Attorno a loro si sviluppò una
generale e straordinaria solidarietà, testimoniata dalla assenza di delazioni,
per evitare che fossero consegnati dai repubblichini ai tedeschi ed essere deportati nei campi della morte.
Tutti furono protetti e nascosti in case private e in conventi e tutti ebbero
salva la vita ad eccezione di Arturo Neisser, apolide berlinese di 68 anni. Il
Neisser da Urbino era risalito fino a Sondrio, forse per tentare un difficile
passaggio in Svizzera, ed era stato carcerato a Milano. Condotto
successivamente al campo di raccolta di Bolzano-Gries, fu tradotto ad Auschwitz
e ucciso al suo arrivo il 28 ottobre. Tra i tanti che si distinsero nel prestare aiuto agli ebrei,
ma anche ai partigiani e ai prigionieri alleati evasi dai campi di
concentramento, vanno ricordati oltre a
don Gino Ceccarini, i sacerdoti don Dante Lucerna, don Adelelmo Federici, don Gino Loppi e don
Pietro Moneta. E inoltre: le suore agostiniane del convento di Santa Caterina;
l’assistente carceraria Concetta Ceccarini Logli; gli impiegati comunali Luigi
Micheli e Carlo Paolucci che fornirono documenti falsi e avvertivano dei
probabili arresti decisi dalla Guardia nazionale repubblicana; il dottor
Severino Baiardi, medico delle carceri e il dottor Aurelio Caruso, chirurgo
dell’ospedale civile. E tuttavia anche Urbino ebbe i suoi ebrei deportati. Si
tratta dei 13 ebrei, quasi tutti stranieri, catturati a S. Angelo in Vado nel
rastrellamento del 12 agosto 1944 effettuato dal comando tedesco e prelevati
dall’ospedale civile di Urbino. Trasferiti
a Forlì furono qui fucilati nel campo di aviazione tra il 5 e il 17
settembre.
Il
terribile inverno 1943-44 e la liberazione della città
L’inverno ’43-’44 fu il periodo più
drammatico anche per la nostra città. C’era penuria di generi alimentari e la
popolazione temeva i bombardamenti e il rischio incombente di possibili
rappresaglie. L’essere a cavallo della
Linea gotica, lungo cui i tedeschi
apprestavano le difese, costituiva un oggettivo
pericolo. I problemi si erano nel frattempo accresciuti per la presenza di più di 4 mila sfollati e
il trasferimento di tutto l’apparato
amministrativo e degli organi politici della Provincia con il relativo
personale. Per di più alla fine di maggio del ‘44 un comando delle SS era stato istituito in
città. Importante fu il dispiegarsi di un canale di mediazione con il comando germanico e una
vera e propria attività diplomatica, che ebbe per protagonista l’Arcivescovo
Antonio Tani, diretta ad ottenere per Urbino lo status di “città aperta” al
fine di allontanare il pericolo di
devastanti operazioni belliche e a tutela del patrimonio artistico e
architettonico.
Dal punto di vista dell’analisi
storiografica, consegnata in numerose pubblicazioni, nell’Urbinate, si è di
fronte a un quadro politico-militare,
che conferma gli elementi essenziali che hanno caratterizzato la Resistenza. Si
pensi al contributo degli ex prigionieri slavi e britannici, all’andata in montagna dei renitenti alla
leva, alla protezione delle popolazioni messa in campo dal Cln e dalla Curia.
Un movimento resistenziale che nell’agosto del ’44, al momento dell’arrivo
degli Alleati, poteva contare in tutta la provincia, su quasi 2 mila
effettivi, di cui ben 413 inquadrati nei
Gap di Schieti, distribuiti in due brigate a loro volta articolate in
battaglioni e distaccamenti.
Nei racconti dell’esperienza
partigiana di tanti protagonisti un dato
costante, comune a tutti, è il ritorno nei luoghi d’origine dopo l’8
settembre1943, il darsi alla macchia, la costituzione delle prime bande armate
e il tentativo di stabilire contatti con il CLN locale. Nell’Urbinate,
quindi, si riscontrano tutte le fasi organizzative e politiche della
Resistenza marchigiana e nazionale: il travaglio preparatorio delle forze
antifasciste fino attorno all’ottobre del ’43; il decollo della guerriglia in
una situazione di movimento anche sociale e di radicamento su un’ampia base
popolare durante tutto l’inverno ‘43-’44; l’organizzazione di un’ampia e
diffusa rete di guerriglia che viene a coincidere con una prima strategia
partigiana centralizzata su scala regionale, nella primavera del ’44 e che,
nonostante i rastrellamenti e la presenza dell’autorità repubblichina, fa
registrare il controllo di parte del territorio; il momento, infine, tra giugno
e i primi di settembre del ’44, della liberazione di un notevole numero di centri
piccoli e medi.
Il 28 agosto di sessant’anni fa,
dunque, gruppi di partigiani precedendo le truppe del Corpo italiano di
liberazione e quelle del V Corpo britannico, liberavano Urbino e l’intera
provincia dall’incubo dell’occupazione tedesca e dalle atrocità dei
repubblichini.
La città lentamente riprendeva a
vivere, quasi stupita di avere superato senza danni irreparabili un pericolo
tanto terribile, ma è comunque
prostrata. Qualche mese più tardi, il quadro tracciato dal sindaco del Cln,
Giovanni Fanelli, nella Relazione mensile
al Governatore militare alleato, è preoccupante: scarseggiano gli
approvvigionamenti alimentari e l’acqua potabile, l’agricoltura fatica a
riprendersi per le requisizioni e le distruzioni, mancano i servizi pubblici di
trasporto per persone e merci, c’è necessità di medicinali per il servizio
sanitario e per combattere le malattie infettive, si segnalano 295 casi di
scabbia e 50 di influenza. Difficile è
anche la situazione delle scuole che non funzionano regolarmente per la precarietà
dei locali, soprattutto nelle frazioni del Comune.
Ma era tutta la contabilità delle distruzioni riportate
dalla provincia di Pesaro-Urbino a risultare altamente drammatica: la rete
stradale registrava 750 interruzioni e 200 erano i ponti crollati o inagibili.
La provincia, tra le quattro delle Marche, era quella che aveva subito le
maggiori distruzioni, valutate in 30 miliardi di lire di allora.
L’agricoltura presentava i danni più
rilevanti, soprattutto nella Valle del Foglia, a ridosso della Linea Gotica,
dove 3 mila ettari di terreno, tra i più fertili, risultavano impraticabili per
le mine e la perdita del bestiame era pari al 40% di tutto il patrimonio
zootecnico provinciale. Le case distrutte ammontavano a 1.474, quelle
danneggiate gravemente a 808 e altre 2.305 avevano riportato danni di minore entità. I vani completamente
distrutti ammontavano a 37 mila e altri
87 mila semidistrutti. Diversi paesi
avevano riportato gravi distruzioni e due, Montecchio e Pozzo Basso, erano
stati rasi al suolo. L’apparato industriale era andato quasi del tutto perduto,
privato del materiale e dei macchinari smantellati dai tedeschi. Anche la rete
ferroviaria risultava sconvolta: sia la Metaurense, che collegava Urbino a
Fano, sia la Urbino-Fermignano-Pergola-Fabriano che garantiva i collegamenti
con la Valle del Tevere e la capitale.
Un capitolo a parte riguardò la bonifica dei campi minati
nella Valle del Foglia che “dopo lo sfondamento della Linea Gotica era un
insieme di macerie, residuati bellici di ogni tipo, case coloniche trasformate
in fortini, terreni diventati depositi esplosivi e soprattutto campi minati”.
Il lavoro, condotto da 70 sminatori, durò tre anni. Furono integralmente
bonificati circa 10 milioni di metri quadrati di terreno, da Mercatale al mare
e da Marcatale verso l’interno, fino a S.Sisto, 300 km. di strade, 87 km. di
ferrovia, 76 ponti, 84 case di abitazione. Si rinvennero e furono fatte
brillare circa 300 mila mine. Morirono 12 sminatori, 6 rimasero mutilati e 8
feriti.
Il cammino della ricostruzione sarà
lungo e difficile. Lo sanno bene gli urbinati della mia generazione la cui
infanzia è coincisa con quel periodo. Ma
questa è un’altra storia. Grazie per l’attenzione.
Ermanno Torrico
Istituto
per la Storia del Movimento di Liberazione “E. Cappellini” di Urbino
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